RECENSIONI


Il Recovery per il futuro della psichiatria
Mi è piaciuto provare a leggere il libro di Maone e D’Avanzo comparando il modello-paradigma della deistituzionalizzazione versus il modello-paradigma del Recovery.
Due modelli storicamente e geograficamente diversi: uno eminentemente italiano, l’altro anglosassone.
Quattro brevi considerazioni:
La deistituzionalizzazione è un processo critico, dotato di una forte componente distruttiva; distruttiva dei paradigmi della psichiatria, distruttiva del paradigma e del luogo fisico che è il manicomio, e dunque con una forte connotazione “destruens” piuttosto che “costruens”. Potremmo dire che Basaglia ha soprattutto identificato il grande fattore di rischio per le persone che soffrono di una malattia mentale grave ossia la Psichiatria stessa.
Vi è inoltre una forte connotazione collettiva nel modello di deistituzionalizzazione in quanto essa avviene perché un collettivo decide di metterla in pratica. Il modello del Recovery è invece fortemente connotato da una attitudine molto propositiva, ossia da una componente orientata alla costruzione di paradigmi nuovi, di strategie nuove di intervento, ma ha una forte connotazione individuale: il Recovery ha soprattutto molto a che fare con il modo con cui l’operatore della psichiatria si confronta con la domanda. Certamente poi questo ha anche un impatto sull’organizzazione dei servizi, ma non c’è dubbio che il processo di deistituzionalizzazione ha un impatto piú diretto e radicale sulla organizzazione di servizi e regola i conti col passato della psichiatria in modo collettivo. Il modello del Recovery non regola tanto i conti col passato (e presente) della psichiatria, ma piuttosto apre un nuovo conto per il futuro della psichiatria.



L’assunto implicito del modello della deistituzionalizzazione è “noi restituiamo al paziente le sue capacità di autodeterminarsi”, affinché egli conquisti un proprio percorso: la riabilitazione psicosociale si costituisce come modello referenziale.
L’assunto implicito del modello di Recovery è invece “dobbiamo riformulare gli interventi psichiatrici di modo che essi perdano quelle caratteristiche autoritarie che ne impediscono la riorientazione a un modello di Recovery”.
Questa differenza di assunti andrebbe esplorata e analizzata.
Il modello della deistituzionalizzazione assume che “io lo so e io te lo dico” con alcune connotazioni e rischi di atteggiamenti “coloniali” nei confronti dei pazienti: prima c’erano psichiatri cattivi che legavano al letto, adesso ci sono psichiatri buoni che slegano. Ossia: “noi sappiamo cosa ti fa bene”, affermazione tanto vera quanto anche rischiosa.
La dimensione del “noi sappiamo bene che cosa ti serve” è in qualche modo anche un po’ autoritaria e rischia di sostituire all’autoritarismo della cattiva psichiatria quello della buona psichiatria. Se questo potrebbe essere un limite del modello della deistituzionalizzazione, non c’è dubbio che il limite nel modello del Recovery è invece quello della perdita della capacità di essere conflittivi col modello della psichiatria.
Con il modello Recovery il paziente acquista una forte empowerment però lascia che la psichiatria non venga più rimessa in discussione come fu messa in discussione dal modello della deistituzionalizzazione.
Ci sono degli arricchimenti che derivano da entrambi i modelli, ovviamente. C’è un arricchimento che viene dal modello della deistituzionalizzazione ed è quello di un radicale sguardo critico non solo sui luoghi della psichiatria (la vergogna del manicomio, il suo superamento e la promozione dei diritti), ma anche una riflessione critica sull’impianto diagnostico e sulla totale incapacità predittiva della diagnosi: il modello della deistituzionalizzazione rimane la piú coerente e articolata sfida al modello biomedico della psichiatria.
Vi è però anche un arricchimento che deriva dal modello del Recovery ed è quello di un processo radicale di empowerment dei pazienti. I pazienti del modello della deistituzionalizzazione erano “empowered” in forma indiretta, ossia beneficiavano dei processi di trasformazione promossi dal movimento della deistituzionalizzione; ma vi è sempre un rischio quando è qualcun altro che ti garantisce che avrai un beneficio. Nel modello del Recovery l’empowerment del paziente è piú diretto ed è il paziente stesso che decide che cosa lo beneficia e che cosa non lo beneficia.
Il modello della deistituzionalizzazione è stato certamente anche molto ideologico, tanto da essere sostanzialmente ostile a qualunque tentativo di valutazione da parte degli approcci della evidence based science. Questa dimensione conflittiva è anche stata la sua forza: una forza molto latina poiché il movimento della deistituzionalizzazione non solo è nato in Italia, ma ha avuto punte alte in Spagna, in Brasile, in Portogallo; mentre nei paesi anglosassoni si è sviluppato meno e con minore passione conflittiva. Al contrario, il movimento del Recovery ha una caratterizzazione culturale con una forte connotazione apolitica, molto mediativa e certamente molto anglosassone.
Si tratta di due grandi modelli che hanno consentito gli sviluppi piú significativi della psichiatria negli ultimi 50 anni: abbiamo grandi debiti nei confronti di entrambi i modelli ed è necessario attraversarli entrambi senza metterli in posizione antagonista.
Sono due modelli molto importanti che esprimono una forza epistemologica e pratica anche se entrambi mostrano fragilità epistemologiche e pratiche altrettanto importanti.
Concludo con un grande “grazie” ai due curatori (e in parte autori), non solo per aver permesso di avere in Italia un libro che ci permette queste riflessioni, ma anche di aver avuto la capacità e il prestigio di raccogliere contributi teorici importanti di autori italiani e stranieri altamente significativi nella letteratura dedicata al Recovery.
Benedetto Saraceno
benedetto.saraceno@gmail.com




Il sole governa la famiglia degli astri
A distanza di un anno dalla morte, la moglie pubblica un breve libro che racconta gli ultimi anni di vita del marito. “La vita di un uomo – mio marito – cambiata in modo radicale da una malattia incurabile chiamata SLA. Una strada tutta in salita circondato da tante persone la cui presenza può diventare motivo di speranza, nonostante tutto”. Giuseppe Peri è stato per molti anni ricercatore all’Istituto Mario Negri di Milano. Entrato negli anni ‘60 come studente dei primi corsi per la formazione di tecnici alla ricerca. “Ha sempre lavorato con dedizione e passione, e con il gusto delle cose ben fatte. Beppe ha avuto un ruolo importante nella formazione di ricercatori, di medici, di tecnici, non solo sul piano tecnico-scientifico, ma anche e soprattutto sul piano umano”.  Red.

La SLA è entrata nella nostra vita, quella di mio marito e la mia, e ha cambiato tutto. Radicalmente e in modo drammatico. Nessuno l’ha invitata, nesuno l’ha voluta… ha preso possesso della nostra casa, si è impadronita del nostro tempo. Fino ad allora capitava agli altri e si poteva intuire il dramma; poi “siamo diventati noi gli altri” e allora lo abbiamo realmente compreso.



La storia di mio marito assomiglia a quella di tante persone che fino ad un certo punto della vita respirano, parlano, scrivono, camminano, corrono, si alzano, mangiano, sorridono, abbracciano, danno un bacio o una carezza… azioni semplicissime, naturali, scontate… poi non lo possono più fare. E in quel momento ci si accorge della loro bellezza.
Insieme alle persone meravigliose di cui parlo nel libro, sono entrata in un vortice, in un movimento continuo che mi ricorda quello del sistema solare.
Anche quando la malattia ha mostrato tutta la sua crudeltà, nessuno si è fermato, nessuno si è allontanato: sarebbe venuto meno quell’equilibrio costruito a fatica ma con gratuità, fatto anche e soprattutto di condivisione e di affetto.
Al centro dei nostri pensieri e del nostro fare c’era Giuseppe che come una calamita ci attirava a sé e chiedeva il nostro aiuto. Abbiamo lottato insieme a lui finché le forze glielo hanno permesso, lo abbiamo protetto finché ci è stato possibile.
Il rimanere uniti è stata la nostra forza, l’unica difesa di fronte alla malattia.
Carla Rimoldi
carla.rimoldi@virgilio.it


La lettera scritta da Beppe poco tempo dopo aver appreso della diagnosi: 4 anni prima della morte.
… La mia vita l’ho vissuta seguendo questi due ideali: amore e solidarietà. Questi ideali mi hanno sempre dato una grande forza per vivere una vita veramente piena di soddisfazioni e di prove e se potessi riviverla la rifarei nello stesso modo. Le più grandi soddisfazioni le ho ricevute nel dare. Quanto uno dà, sia amore che cose materiali, agli altri ha sempre un ritorno molto amplificato. Queste cose uno le capisce solo se le prova, perché non basta sentirle dire, bisogna provarle davvero perché solo così una persona si rende conto della quantità di gioia che prova. Vivendo in questo modo mi sono fatto tanti amici con cui condividere momenti belli e che in caso di bisogno sono sempre di grande aiuto nel darti una mano per andare avanti.
Beppe