Breakthrough drug

L’aggettivo breakthrough in ambito farmaceutico è utilizzato ufficialmente per indicare un medicinale capace di offrire un significativo e rilevante cambiamento clinico nella storia naturale di una patologia. Si tratta di un termine preso in prestito dal linguaggio militare per non lasciare dubbi sull’impatto radicale e dirompente che il nuovo farmaco avrà rispetto alla terapia standard. Tenendo a mente tutto ciò è interessante leggere il racconto di un General Practitioner (GP) di Glasgow e di come ha cercato di orientarsi tra i titoloni dei media nazionali che annunciano l’imminente arrivo di un nuovo farmaco contro l’Alzheimer 1.
Quest’ultimo, il solanezumab, viene appunto presentato come un breakthrough in quanto per la prima volta si sarebbe di fronte ad una terapia che non solo rallenta la progressione dell’Alzheimer nei pazienti con sintomatologia meno grave, ma addirittura previene il declino cognitivo in un terzo della popolazione esposta rispetto a quella che non usa il farmaco. La notizia, presentata in questi termini dalle maggiori catene informative nazionali inglesi, finisce per portare il nostro GP a voler approfondire la questione anche, e soprattutto, in previsione della lunga serie di domande che una così rilevante novità solleva nei pazienti e nei familiari che soffrono di tale patologia.
L’analisi delle prove di efficacia su cui si fondano le affermazioni roboanti è però piuttosto deludente poiché si basa su studi verso placebo che non hanno mostrato una significatività statistica rispetto agli obiettivi primari. Il beneficio riscontrato è evidente in analisi di sottogruppi di pazienti e, in forma modesta, anche nell’estensione dei trial originali. Insomma, poca cosa per meritarsi l’aggettivo breakthrough. Rimangono però le attese generate dalle notizie ormai lanciate che non sarà facile per il nostro GP ridimensionare senza apparire, agli occhi degli speranzosi famigliari dei malati di Alzheimer, il solito criticone anti-innovatività.
Cambiamo storia ma non argomento. Un recente studio americano sembra dimostrare come la dieta mediterranea sia efficace nel prevenire il decadimento cognitivo in pazienti anziani: 447 volontari con un’età media di 67 anni, e con alto rischio cardiovascolare ma con normali capacità cognitive, sono stati sottoposti in modo casuale ad una dieta di tipo mediterraneo o ad una non specifica dieta controllata. La popolazione è stata seguita dal 2003 fino alla fine del 2009 rilevando una risposta significativamente migliore ai diversi test cognitivi e neuro-attitudinali nel gruppo esposto alla dieta mediterranea 2. Insomma, l’intervento adottato sembrerebbe offrire un significativo e rilevante cambiamento clinico nella storia naturale di una patologia. Se l’intervento fosse un farmaco si potrebbe chiamare breakthrough.
Antonio Addis
Dipartimento di Epidemiologia,
Regione Lazio
a.addis@deplazio.it

BIBLIOGRAFIA
1. McCartney M. Margaret McCartney: Taking patient safety seriously means minimum staffing levels. BMJ. 2015 Jul 27;351:h3903. doi: 10.1136/bmj.h3903.
2. Valls-Pedret C, Sala-Vila A, Serra-Mir M, Corella D, de la Torre R, Martínez-González MÁ, et al. Mediterranean Diet and Age-Related Cognitive Decline: A Randomized Clinical Trial. JAMA Intern Med. 2015;175:1094-103.
doi: 10.1001/jamainternmed.2015.1668.