Diario da Mumbai
Immagini e riflessioni dallo slum di Dharavi e non solo

SILENZIOSA VIOLENZA
All’ingresso di questa parte di Dharavi, di fronte al deposito degli autobus, scavalco tre cani randagi dormienti. Supero la terza porta chiusa con un lucchetto esterno, di un azzurro scolorito… ci sono due coniglietti e più avanti incontro anche due oche. “Strano diversivo come inizio giornata” penso. Poi prendo una stradina sempre più stretta e, girato un altro angolo, il buio si fa più fitto, da non vedere dove metto i piedi. Alzo lo sguardo e il cielo è a strisce, tra panni stesi, sari lunghi e pezzi di sacchi di riso stesi ad asciugare.



Le case/baracche sono anche di tre piani in questa comunità, l’odore di acqua putrida è intenso, non passa aria e lo scolo nell’unica strada bagna piedi e pantaloni. Un bambino si china e fa pipì; tre uomini trasportano una barra di acciaio lunga almeno 4 metri, due donne accovacciate davanti alla porta della loro casa parlano a bassa voce. A volte sembra difficile che ci sia tutta una vita dietro quelle piccole porte o su per le scale ripide. Altre volte è la vita che pulsa, frenetica, in certi momenti caotica, tra grida, profumi di cibo speziato e cipolla, bimbi che corrono e giocano, rigorosamente a piedi nudi.
Le mie visite sono accompagnate da membri della comunità, andiamo di porta in porta, e di solito mi sento relativamente a mio agio, anche se ho sempre gli occhi addosso: straniera, bianca, esterna alla comunità. Oggi, però la tensione si è fatta sentire più del solito, soprattutto l’ho ascoltata nei racconti delle donne incontrate: hanno volti delicati, sono minute e perse dentro il sari coloratissimo. Parlano e cercano di non rivelare la dura vita che ogni giorno devono affrontare, ma poi le voci si fanno rauche, gli occhi si annebbiano e iniziano a parlarmi di botte, di mariti ubriachi e di tensioni quotidiane. Una bellissima ragazza di 20 anni, in sari verde smeraldo e oro, siede accanto a me. Non ha sogni, nessun sogno. “La mia vita – mi dice Najar tenendo in braccio il suo bimbo di un anno e mezzo – è così: ogni sera vengo picchiata. E non so perché”. Non c’è spazio per interagire: è secca, mi guarda diretta e chiude il discorso. Manca l’aria.

QUI IN CITTÀ SI MANGIA ANCORA POCO
Afriv esce dall’ambulatorio ginecologico del Centro di Salute Urbana all’intero dell’ospedale di Sion, un sobborgo di Mumbai. È al settimo mese e la sua pancia quasi non si vede: minuta, con solo gli occhi – enormi e accesi – si ricopre, infila le infradito lasciate all’esterno, nell’atrio.
Si siede vicino a me.
Mi guarda spaurita, è così piccola che la panca resta ancora per metà vuota. Davanti a noi si presenta suo marito, tanto giovane da sembrare un bambino. È qui perché il suo bambino non cresce, è preoccupata. Ha appena fatto una visita di controllo, ma le hanno detto che il sangue è povero di ferro e di altre sostanze, che non ha ben capito quali siano.
La traduttrice mi stringe, vorrebbe spostarsi perché – si lamenta – la ragazza emana un odore fortissimo: sicuramente non si lava da giorni. La sua condizione non è facile: Afriv vive in una joint family, la famiglia allargata del marito. Nella casa in affitto, senza acqua né elettricità, sono in 12. E lei si lamenta perché dice di non ricevere abbastanza cibo.
Le lentiggini sul naso sono l’unico colore del suo viso, che è bianco, quasi giallo. Sospira e ammette di soffrire: “Io, sai, non posso mangiare verdura fresca né cotta perché mio marito non lavora e così i miei suoceri dicono che non ne ho il diritto. Il mio bambino, però, così non cresce, proprio perché io non mangio cose che gli farebbero bene”. La chiamano, mi saluta con un cenno della testa e va al piano superiore, per un’ecografia più dettagliata. Il marito le stringe la mano.

IL LAVATOIO DI MUMBAI
Una immagine che non si può certo dimenticare. Mi trovo sul cavalcavia che attraversa i binari vicino alla stazione di Mahalaxmi. La zona è centrale, caotica, tra i clacson dei taxi e il rombo dei motori modificati delle moto. Da questa posizione scorgo il profilo della città, fatto di grattacieli in costruzione, con le loro vetrate ampie e azzurre su cui si riflette la luce e fatto di casette in mattoni, un insieme che potremmo definire uno slum.
Niente di nuovo, verrebbe da dire: sono i netti contrasti raccontati anche da Suketu Metha nel suo libro Maximum City. Poi però seguo con gli occhi una venditrice di braccialetti verdi, quelli che qui si usano per indicare che una donna è sposata.
Il mio sguardo va verso gli scalini che la donna si accinge a fare con la cesta sulla testa e noto un’infinità di vasche e di panni stesi al sole, di ogni dimensione e colore. Siamo al Mahalaxmi Dhobi Ghat, un lavatoio costruito 140 anni fa.
Questo luogo, schiacciato tra le trafficate arterie stradali e i palazzi della metropoli, è stato definito “la lavatrice umana più antica e più grande di Mumbai”.
Qui ogni giorno centinaia di persone lavano – rigorosamente a mano – tonnellate di biancheria sporca proveniente da ogni angolo della città. Utilizzano 1026 vasche di pietra all’aperto e vanno avanti dall’alba al tramonto.
Anche i camici dei dottori e le divise degli infermieri vengono lavati qui. C’è chi lavora, chi cammina e chi semplicemente guarda. Sono tanti, con sguardo da turisti: affascinati e sorpresi al tempo stesso.







DILLIP, IL CIABATTINO
È come un cammeo incastonato nel paesaggio urbano, prezioso ma nascosto. Prezioso perché permette a tutti di continuare a camminare. Nascosto perché lo raggiungi solo se sai dove andare a cercarlo, tra una viuzza e un passaggio.
Dillip aggiusta scarpe, ciabatte, sandali, infradito e calzature d’ogni sorta. Occhialini tondi, capelli corvini, baffetti curati e modi gentili, siede con le gambe inestricabilmente intrecciate. In quella che sempre Suketu Metha definisce “la città degli eccessi”, lui è l’esempio della sobrietà.
Col suo piccolo stand di legno, in una megalopoli che soffoca per mancanza di spazi, occupa poco più di un metro cubo. Ci sta dentro accovacciato, per ore. Tante ore.
Dalle 10 del mattino alle 10 di sera.
“La domenica però – mi racconta – solo mezza giornata”. In tutto fanno 71 ore la settimana, quasi il doppio del nostro orario lavorativo.
Poco oltre la bottega di Dilip, iniziano le bancarelle del Pali Market, traboccanti di frutta e verdura di prima scelta.
Le comprano i ricchi clienti di Bandra, uno dei quartieri più caleidoscopici di Mumbai.
Alla sua destra, invece, comincia la salita che sale verso le lussuose residenze di Pali Hill mentre, a sinistra, a poche centinaia di metri, si apre la “via dei diamanti”, con le gioiellerie per i divi di Bollywood. Nel mezzo, c’è lui, con i suoi arnesi: il filo per cucire mocassini sgualciti e la colla per ridare vita alle suole usurate.
Umile, in latino, significa “basso”, “vicino a terra”. Ecco, mi viene da pensare che quella di Dilip sia proprio la faccia umile di una città dai molteplici volti, sociali ed economici. Lui è lì, accovacciato a livello della strada, “vicino a terra”. E con il suo lavoro consente a tutti, a tanti, di passargli accanto, di camminare ancora, di restare, metaforicamente, con i piedi per terra.

ORTI DI MEGALOPOLI
Piccole strisce di colore verde intenso. Le intravedo quando prendo il treno urbano diretto verso il centro o la periferia. Sbucano così, all’improvviso, quando meno te lo aspetti: lungo un muro o a ridosso delle baracche di chi si è accampato quasi sui binari, oppure persino in mezzo a uno snodo ferroviario. Sembrano ciuffi di insalata che crescono quasi sui binari, e guardandoli da più vicino, lo sono davvero. Orti di città, anzi di megalopoli.
Schiene chine ne raccolgono i cespi più freschi, per rivenderli al mercato. Non lontano dalla stazione di Mahim Junction, vedo tre donne accucciate: stanno raccogliendo con cura l’insalata, la mettono in un grande sacco, che poi un signore con i baffi si porta via, dopo aver pagato le tre giovani signore.
Ecco il treno, che passa lì accanto, coi soliti passeggeri aggrappati alle porte del convoglio rimaste aperte.



Arrivano alcuni bimbi, tra i 2 e i 5 anni, che corrono vicino alle traversine, incuranti del transito dei treni. Sono i figli delle tre raccoglitrici e con le loro mamme s’incamminano verso “casa”, percorrono una specie di stradina tra orti e binari.
Vivono in una sorta di baracca composta da una tenda di plastica appoggiata a un alto muro. Vedo altri bambini, due cani, qualche gallina. Il proprietario dell’orto, l’uomo coi baffi, invece, non abita qui: con il suo grande sacco di iuta appoggiato sopra la testa, si arrampica su una scala di legno. Dall’altra parte del muro, un’analoga scala gli permette di scendere su un normalissimo marciapiede e di incamminarsi col suo carico di verdure preziose verso il mercato.

VITE IN “PRIMA LINEA”
Dalla stazione di Mahim Junction, un ponte pedonale conduce verso i bassifondi di Dharavi e dalla visione che mi si presenta davanti inizio a capire perché a Mumbai gli spazi non bastano più. Una fila di baracche di cui non si percepisce assolutamente l’origine, si arrampica imponente verso i binari del treno.
La mia attenzione viene subito colpita da una signora accovacciata che sta intrecciando ghirlande di piccoli garofani arancio brillante destinati alla vendita in qualche tempio hindu. Un treno della linea Harbour Line – diretto verso il porto della città – quasi la sfiora, ma lei non sembra neanche accorgersene, continua placidamente a intrecciare petali e fili. Eppure mette a repentaglio la sua vita per sole trenta rupie per ogni corona di fiori, meno di cinquanta centesimi di euro.
Alcuni ragazzini si lanciano una pallina improvvisando una sorta di cricket senza la mazza, corrono tra mucchi di spazzatura e traversine del treno, su cui improvvisamente incombe un convoglio che per fortuna procede lentamente.
Per una manciata di secondi tutto si ferma e appena il treno transita, la vita riprende normale per tutti: caprette, galline, bambini scalzi, cani randagi, venditori ambulanti... E i panni, una distesa infinita, stesi ad asciugare sulle inferriate tra un binario e l’altro.
Da questa stazione si dividono due linee ferroviarie, attraverso rapidamente la prima, ritrovandomi in un dedalo di casupole e mi imbatto in una piccola bottega di alimentari. Incrocio un gruppetto di bambine con la divisa blu a quadretti e lunghi capelli neri intrecciati, appena uscite da scuola. Lo slum dove mi trovo si chiama “Azad Nagar” e anche se sorge tra la linea “Harbour” e la “Western”, il suo nome vuol dire “il luogo della libertà”.

MOVIN’MUMBAI
I numeri sono impressionanti: nella “Grande Mumbai”, vivono quasi 20 milioni di persone, praticamente tutti gli abitanti di Lombardia, Piemonte e Veneto. E ogni giorno, quasi quattro milioni di persone prendono il treno per raggiungere il centro della megalopoli. In realtà, è l’estensione meridionale di un lembo di terra allungato, un tempo formato da sette isole.
I colonizzatori portoghesi la chiamarono “Bom Baia”, da cui “Bombay”.
E che sia stata la prima città costruita in India lo si capisce anche dall’insegna scritta in latino “Urbs prima in Indis”, impressa sul “Gateway”, il monumento simbolo del porto marittimo. Da qui un tempo partivano bastimenti carichi di merci, tessuti e spezie d’ogni sorta.
Oggi Mumbai – il nome imposto alla città dai nazionalisti hindu nel 1995 – è ancora una calamita che continua ad attirare indiani provenienti da tutto il Paese. I numeri non bastano a descrivere la moltitudine di viaggiatori che quotidianamente utilizzano i treni urbani. Basta sostare qualche attimo sulla passerella pedonale della stazione di Bandra e osservare la varietà di esseri umani in movimento: in un solo minuto, transitano con passo frenetico quattrocento persone, oltre venti mila in un’ora. Ma quello che colpisce non è solo il numero, ma anche i colori caleidoscopici che caratterizzano queste persone: dai sari multicolori che avvolgono alcune donne, ai lunghi niqab neri che ne coprono altre fino a vestiti in tinta pastello degli impiegati, con mocassini lucidi e smartphone. Da questi particolari si delineano i mille volti di questa megalopoli, la più eclettica, nonché la più ricca dell’interno sub-continente indiano.



Finalmente arriva il convoglio diretto al capolinea di Churchgate, dalle porte aperte del treno penzolano passeggeri aggrappati precariamente, che con il mezzo ancora in corsa, giunti a destinazione, balzano giù al volo. Molti altri cercano di sgusciare all’interno del vagone cercando di migliorare la loro posizione. E poi ci sono quelli a terra: molti, moltissimi cercano di crearsi un varco sulle carrozze di seconda classe, dentro lo scompartimento che ricorda un alveare. Il treno riparte. Poco dopo, la scena si ripete identica e in perfetto orario. Altro giro, altra corsa: Mumbai non si ferma.

ARTE IN MUTAMENTO
“Perché mai dovremmo occuparci di un tema così personale come quello della toilette, un tabù di cui nessuno vuole parlare? E perché mai dovremmo farci un film?”. Così Surekha spiega la sua reazione appena le è stato proposto di affrontare il problema dei “bagni pubblici” a Dharavi attraverso un documentario partecipato.
Il risultato, dopo quasi due anni, è Indefensible space, del giovane regista Manish Sharma, documentario proiettato allo DistrictSports Complex di Dharavi, davanti ad oltre 380 persone.
Il tema è forte: i “bagni pubblici” gestiti dal governo per chi abita questi spazi densissimi, uno ogni quattro mila abitanti circa in cui la poca pulizia si scontra con l’inerzia della macchina statale e la non cura degli abitanti.
La situazione, poi, è aggravata dalla promiscuità della vicinanza tra il bagno maschile e quello femminile, reale paura di molte donne intervistate nel film, che sostengono di temere di essere molestate e subire violenze. La Alley Dharavi Biennale, sostenuta dall’associazione Sneha – per la nutrizione, l’educazione e la salute – e dall’University College of London è anche questo: riflessione politica e di partecipazione.



Resto seduta affascinata, in mezzo a tutte le persone di ogni nazionalità che ascoltano e seguono il tema, che partecipano e fanno domande: sono operatori del settore, ricercatori, esponenti di comunità e diverse minoranze, attivisti dei diritti umani e residenti di Dharavi.
Tutti affollano le tre settimane di arte e salute, nella Dharavi Biennale, che per la seconda edizione colora le viuzze dello slum e provoca stimoli con le sue associazioni libere.
Grazie ai residenti di Dharavi, che hanno aiutato alla realizzazione del progetto, si possono ammirare diversi mostre di fotografie ed esposizioni artistiche, persino partecipare a dei laboratori di cucina.
Mentre sfoglio Comics epidemic, un libro rosso di fumetti realizzati da bambini e adolescenti dello slum, si avvicina Darshana Dhawale, 19 anni che mi mostra il suo fumetto dal titolo Woman Power, e con un sorriso infinitamente luminoso mi racconta la sua storia. “Vivo qui da sempre”, dice.”Per me, questo luogo è più di una casa, è il posto che più conosco e che più alimenta la mia fantasia, proprio perché è in continuo mutamento. Voglio parlare di questo luogo e voglio farlo sapere al mondo. Voglio diventare così brava da essere letta nelle scuole, perché noi siamo Mumbaikars e possiamo dire qualcosa al mondo”.

Testo e foto di
Marzia Ravazzini
Georgetown University
Health Law Initiative 
e Fondazione Bruno Kessler,
Washington DC
marziaravazzini@yahoo.it