Guidare l’innovazione: una opportunità pubblica
Gianluigi Casadei, Livio Garattini
Centro di Economia Sanitaria
A.
e A. Valenti (CESAV), Ranica (BG)
Dipartimento Salute Pubblica, IRFMN
gianluigi.casadei@marionegri.it
In sanità le definizioni di “innovazione” davvero non mancano. Parafrasando sir Ian Kennedy, tutti concordano sul fatto che l’innovazione sia una “buona cosa”, – un concetto positivo che si può solo condividere, – e l’accordo è tale da far ritenere superflua qualsiasi discussione su come definirla e declinarla nella pratica1. In un simile contesto, ognuno è libero di parlare di innovazione e di sconfinare nell’equivalenza che ogni novità sia, per definizione, innovativa.
Le novità in ambito farmaceutico sono in drastica diminuzione. Nel 2007 sono stati depositati all’EMA 59 dossier di nuovi farmaci e 10 di generici ibridi; due anni dopo il rapporto si è invertito: 36 a 482. Ma non sembra essere solo una questione di scarsità di nuove molecole: secondo due recenti pubblicazioni la probabilità per una molecola di completare lo sviluppo clinico è costantemente diminuita dal 2003 al 2010: solo 1 farmaco sui 7 testati in fase I per l’indicazione principale è stato approvato dalla FDA3,4 e, ancor peggio, solo 1 su 30 estensioni di indicazioni è arrivata a buon fine. È stato fatto notare come questa tendenza negativa sembri essere insensibile alla iniezione di cospicui investimenti e non intacchi significativamente i profitti dei produttori5.
In effetti l’equivalenza innovazione = nuovo meccanismo d’azione e l’adozione allargata in fase III degli studi di non-inferiorità hanno fino ad oggi permesso di soddisfare i bisogni del mercato e, per citare un ex presidente della più grande multinazionale del farmaco, di trarre profitto da ogni azione umanamente possibile (John McKeen, presidente della Pfizer dal 1949 al 1965; ndr)6. La dimensione di questa azione può essere misurata scorrendo la lista dei 19 farmaci innovativi pubblicata dall’AIFA: l’innovazione è importante in 4 e “potenziale” nei rimanenti 157. Non è ancora dato di conoscere quali siano state le valutazioni d’innovatività, ma è molto probabile che l’aggettivo potenziale stia a significare un nuovo meccanismo d’azione in attesa che studi futuri dimostrino benefici terapeutici aggiuntivi rispetto alle alternative già disponibili a fronte del premium price riconosciuto da subito dal SSN.
In accordo alle leggi di mercato, la scarsità di nuovi farmaci ha accentuato la domanda di novità da parte delle autorità regolatorie e dei payer, che hanno in qualche modo abbassato la guardia sul principio ippocratico primum non nocere. L’aumento del rischio cardiovascolare era già emerso nel 1999 durante il processo di autorizzazione di rofecoxib, ma il comitato di esperti della FDA aveva concentrato la sua attenzione sulla speranza che il nuovo farmaco potesse ridurre la tossicità gastrointestinale tipica dei FANS, sebbene non vi fosse alcuna evidenza in tal senso. Quando un anno più tardi uno studio evidenziò un rischio di infarto miocardico quattro volte maggiore per rofecoxib rispetto a naprossene, la FDA accettò l’ipotesi che tale risultato fosse attribuibile a un’azione cardioprotettiva del FANS 8,9.
Dieci anni più tardi, le autorità regolatorie hanno preso atto che i dati di sicurezza di 52 studi clinici in pazienti trattati con rosiglitazone documentassero in modo evidente un aumentato rischio di eventi cardiovascolari maggiori, dall’infarto miocardico all’insufficienza cardiaca congestizia10. In realtà, questa informazione era già nota dal 2007 quando un comitato di esperti americani e il CHMP avevano evidenziato questo rischio sulla base di tre metanalisi; la FDA e l’EMA11 modificarono di conseguenza il foglietto informativo della specialità e milioni di pazienti continuarono ad assumere il farmaco12,13. Rosiglitazone non è più commercializzato in Europa dall’ottobre 2010, mentre continua ad essere disponibile per selezionati sottogruppi di pazienti negli USA.
Nel 2007-8 è stato approvato l’impiego di bevacizumab nel trattamento di prima linea del tumore mammario avanzato in associazione a paclitaxel sulla base di uno studio in aperto, randomizzato in 722 pazienti, di confronto verso paclitaxel che aveva dimostrato per l’efficacia un aumento della sopravvivenza libera da progressione (PFS mediana = 5,9 mesi), ma nessuna differenza sulla sopravvivenza globale (OS) mediana e per la sicurezza una maggiore incidenza di eventi avversi gravi (grado 3-4), fra i quali ipertensione, proteinuria, ischemia cerebrovascolare e infezioni 14. Il CHMP espresse un’opinione favorevole all’immissione in commercio, pur riconoscendo la necessità di ulteriori dati attesi da studi ancora in corso15. Due studi pubblicati successivamente, in cui è stato coinvolto un totale di 1973 pazienti, hanno posto dei dubbi sul reale beneficio dell’aggiunta di bevacizumab in questa indicazione: l’aumento della sopravvivenza mediana libera da progressione è stata di 1,9 mesi in confronto a solo docetaxel16 e di 1,2-2,9 mesi rispetto ad antraciclina o taxano e capecetabina17. La rivalutazione del rischio-beneficio sulla base di questi dati contrastanti18 sta portando a conclusioni differenti fra EMA e FDA. La prima ha deciso di mantenere l’autorizzazione per questa indicazione limitatamente all’associazione con paclitaxel19, mentre un comitato di esperti della FDA ha concluso che i benefici non giustificano i rischi e la FDA si sta orientando per la revoca20. Nel frattempo è stata pubblicata una metanalisi che evidenzia un aumentato rischio di insufficienza cardiaca grave associato a bevacizumab nel trattamento del carcinoma mammario21.
Quali sono le conseguenze in termini di costi? Questa domanda è destinata a rimanere senza risposta se posta secondo la prospettiva dei SSN: si potrebbe anche stimare la spesa sostenuta per il trattamento di milioni di pazienti ma pare non fattibile valutare i costi sanitari e sociali correlati ai danni. È possibile farsi un’idea della loro enormità prendendo come riferimento i risarcimenti. Nel 2007, la società produttrice di rofecoxib ha accettato di pagare 3,5 miliardi di euro a fronte di 27mila cause di risarcimento 22. La società produttrice di rosiglitazone ha annunciato ai propri azionisti di avere creato nel proprio bilancio del 2010 una riserva legale di 2,6 miliardi di euro23. L’importo totale sarebbe sufficiente per coprire le spese di sviluppo di 4-5 nuovi farmaci, ma sembra essere un rischio calcolato a fronte dei profitti ottenibili con la commercializzazione “accelerata” di novità farmaceutiche ad alto prezzo. Tuttavia, è stato recentemente sottolineato come la straordinaria profittabilità del comparto farmaceutico rispetto ad altri settori industriali sia e debba essere basata su un contratto implicito fra industria farmaceutica e governi; il mercato “etico” deve privilegiare i diritti dei consumatori deboli: i pazienti.
In questa ottica, sembra davvero necessario tornare alla definizione di innovazione, svincolandola dalla novità di mercato e privilegiando la prospettiva dell’autorità pubblica. La definizione un farmaco è innovativo quando permette di muovere un passo in avanti in termini di esito per il paziente richiama in modo semplice e comprensibile l’attenzione sul fatto, che dal punto di vista del paziente e della società, il valore innovativo di un farmaco è definito unicamente dal beneficio aggiuntivo che è in grado di apportare. Rimane da stabilire quale sia la soglia oltre la quale si concretizzi un vantaggio concreto, tangibile per il paziente. Sobrero e Bruzzi ci hanno provato per i farmaci oncologici, un ambito particolarmente difficile perché le componenti emotive si sovrappongono all’oggettività 24. Il “livello dell’asticella” non può che essere inversamente proporzionale al bisogno: per i tumori dove oggi il risultato terapeutico è rappresentato da un PFS di 2-4 mesi e da un tempo di sopravvivenza mediano (MST) <12 mesi (pancreas, stomaco, polmone), beneficio aggiuntivo, e quindi innovazione, è raddoppiare la PFS o aumentare il MST del 50%. Per altri tumori (mammella, ovaio, colon-retto) dove il PFS è di 5-10 mesi e il MST ≥2 anni, innovazione è un incremento del 50% del primo end-point e del 30% del secondo. Queste soglie sono ovviamente una proposta da condividere, ma soprattutto è condivisibile lo stimolo degli autori nei confronti dell’autorità sanitaria di assumere un ruolo pro-attivo nella identificazione dei bisogni sanitari, attuali e futuri, stabilendo a priori i parametri di definizione dell’innovatività. È sempre più necessario che il pubblico, (governi, autorità regolatorie, servizi sanitari), assuma la responsabilità di dare indirizzi precisi alla R&S 25, così da ri-sintonizzarla sui bisogni dei pazienti e, in termini economici, si riappropri del ruolo che il mercato gli attribuisce di agente, responsabile e razionale, del consumatore. Per due buoni motivi: il primo, facilmente intuibile ma troppo spesso dato per scontato, che i servizi sanitari sono responsabili della spesa farmaceutica non solo in termini di finanziamento, ma anche di allocazione delle risorse. La seconda motivazione è meno nota: la salvaguardia del ritorno dei propri ingenti investimenti in ricerca. Un’analisi condotta dal Center for Bioethics dell’università della Pennsylvania ha preso in considerazione gli investimenti globali in R&S nel 2001, arrivando a stimare che l’84,3% della ricerca di base è stato finanziato da programmi pubblici e il 3,8% da Fondazioni, mentre il finanziamento industriale netto sarebbe soltanto il 12% 26. Un altro studio più recente ha evidenziato come negli ultimi 40 anni 153 nuovi farmaci, vaccini, o estensioni di indicazioni approvate dalla FDA siano stati scoperti grazie a studi condotti da istituzioni pubbliche27. Infine, è di questi giorni la notizia che il governo americano ha deciso di stanziare un miliardo di dollari per stimolare la ricerca farmaceutica28.
Concludendo, l’innovazione futura non può essere interamente affidata alla logica di profitto ma richiede la definizione di bisogni terapeutici da affrontare e obiettivi precisi in termini di beneficio addizionale da raggiungere. Ovvio e banale da dire, difficile da mettere in pratica.

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