Cliente, paziente,
persona

In un recente articolo sul British Medical Journal1 Iona Heath, presidente del Royal College of General Practitioners, affermava che i cambiamenti nel linguaggio del servizio sanitario riflettono i cambiamenti in atto nel servizio stesso.
Si tratta di una osservazione non nuova sull’uso della lingua nei sistemi di potere (e la sanità è una stratificazione di poteri: politici, professionali, relazionali, aziendali, ecc.). Il sistema sanitario riflette inoltre la società di cui è al servizio, come una stazione – pensate alle stazioni ferroviarie dei film western o di quelli del neorealismo italiano – è lo specchio dell’anima del luogo in cui è localizzata.
Possiamo tuttavia sostenere anche l’altro punto di vista, non contraddittorio con la precedente affermazione, ma complementare rispetto all’uso del linguaggio. Il linguaggio, il significato dei termini (che muta secondo il contesto nel quale sono usati) mira a colpire chi lo riceve ed è pertanto uno strumento per plasmare la mente di chi ascolta. Strumento quindi di omologazione del sentire comune, di orientamento delle coscienze, di trasmissione di convinzioni e atteggiamenti mentali con lo scopo di farli assumere agli altri, inconsapevolmente 2.
Il poeta polacco Czeslaw Milosz, come riporta il citato articolo del British Medical Journal, ha scritto nel 1980: “ove il potere agisce è anche tramite la capacità di controllare il linguaggio e non solo con la censura proibitiva, ma anche tramite il cambiamento del significato delle parole. Un fenomeno peculiare ha fatto la sua apparizione: il linguaggio di una comunità asservita acquisisce certe abitudini durature; intere zone della realtà cessano di esistere semplicemente perché non hanno nome”.



In questi anni, nei documenti ufficiali, nelle carte dei servizi ma, in particolare, nei meeting, nelle convention aziendali, nei momenti di pianificazione del budget vi sono termini che sono generalmente scomparsi, quali: servizio pubblico, dovere verso la nazione, obblighi del pubblico funzionario, interesse collettivo, bene pubblico.
È invece entrato nell’uso, in maniera diffusa, il termine cliente. Chi fosse interessato alla frequenza di tale parola vada con la memoria ai vari incontri a cui ha partecipato. Per una conferma è sufficiente una ricerca su Google, che ne evidenzia l’uso diffuso da parte di strutture sanitarie non solo private, ma anche da molteplici Aziende sanitarie e ospedaliere.
L’Azienda Ospedaliera Universitaria di Sassari, ad esempio, scrive di “prodotti erogati, in un’ottica che vede il cliente-paziente al centro [ovviamente!] del sistema”, mentre l’Azienda ospedaliera di Padova, nel proprio sito si impegna a “… monitorare periodicamente il gradimento complessivo delle prestazioni erogate all’utilizzatore finale...”, con termine mutuato dal legale di fiducia dell’ex premier!
Il termine “cliente”, nell’ambito della sanità, mi sembra osceno, nel senso proprio della parola, cioè irriverente verso colui a cui ci si rivolge e scandaloso rispetto alle funzioni che il servizio effettua.
Basta sfogliare un buon vocabolario, quale il Devoto-Oli o il Dizionario etimologico Battisti-Alessio, per capire l’inappropriatezza di tale vocabolo.
Si definisce infatti “cliente”, fin dall’antica Roma, chi “accetta protezione di una persona autorevole o influente in cambio di generici servigi”; un ulteriore significato, indicato dai dizionari, è quello di: “persona che accetta supinamente il prestigio e il paternalismo di qualcuno”. Si converrà che termine meno adeguato non può essere scelto, poiché sottintende un rapporto di sudditanza rispetto al servizio pubblico, al medico o all’infermiere a cui la persona si rivolge; un’attesa di un favore – invece che la soddisfazione di un proprio diritto.
Vi è ovviamente il significato più comune di cliente, che è forse quello per il quale tale termine si è diffuso in ambito sanitario: si definisce cliente (Devoto-Oli) “chi fa le spese in un luogo prescelto”. Si vuole così introdurre una visione non tanto economicistica, quanto semplicemente consumistica del servizio sanitario, nel quale il cliente si muove, con la sua autonomia di scelta analoga a quella di un consumatore in un outlet; richiamando pertanto il duplice obiettivo del “fornitore”: equilibrio di bilancio e soddisfazione del cliente, perché sennò (e qui si ritorna al problema del consenso politico) “si finisce sui giornali!”.
Il dizionario giustamente richiama il sinonimo di cliente, che è quello di avventore, termine che si potrebbe quindi introdurre, nell’ottica che spesso ci viene suggerita, ma che difficilmente sarà accettato perché più esplicito, più disvelatore dei valori che tale linguaggio intende infondere fra gli operatori sanitari.
La scelta del linguaggio deriva quindi dagli obiettivi che si danno al sistema sanitario e – conseguentemente – al proprio lavoro. Chi assume come finalità di un sistema sanitario quella di rispondere, in modo equo, alle esigenze delle persone e quale obiettivo il miglioramento dello stato di salute, ovvero, per dirla con altre parole, di produrre salute, non potrà usare il termine cliente, ma esprimersi con altri vocaboli, anche in relazione ai diversi contesti nell’ambito dei quali interloquisce con i vari soggetti. 
Il sistema sanitario è a disposizione delle persone, poiché tutela – secondo la nostra Costituzione – la salute come diritto fondamentale dell’individuo (e non del cittadino italiano). Le persone sono pazienti, quando presi in carico dal servizio per problemi assistenziali (con termine condiviso nelle lingue europee: “patient” in inglese e francese, “paciente” in spagnolo, “patienten” in tedesco, ecc.); sono utenti quando si rivolgono per informazioni, transazioni, certificazioni, ecc.; sono cittadini quando intervengono per contribuire, con le loro indicazioni e il loro voto, alle scelte sanitarie.
Sono queste le parole che dobbiamo utilizzare, lasciando il termine cliente al mondo del consumismo, che è già assai ampio, variegato, prospero e – spesso – gradevole, senza necessitare di ulteriori indebite espansioni!
Marco Geddes da Filicaia
Ospedale Santa Maria Nuova
Azienda Sanitaria di Firenze
marco.geddes@asf.toscana.it

BIBLIOGRAFIA
1. Heath I. Words are all we have. BMJ 2011; 343: d7166.
2. Zagrebelsky G. Sulla lingua del tempo presente. Torino: Einaudi, 2010.