Privacy, intimità, pudore

Quando Samuel Warren e Louis Brandeis sollevarono il problema del diritto alla privacy, con un articolo sulla Harvard Law Review del dicembre 18901, fecero esplicito riferimento all’evoluzione politica, sociale ed economica della società e all’emergere di nuovi diritti degni di tutela; lo stesso right of live, un tempo protetto da aggressioni fisiche, è successivamente oggetto di tutela nei confronti di altri agenti esterni, quali odori e rumori sgradevoli, polveri, fumi, vibrazioni. Fotografie e industrie della carta stampata – affermavano i due autori – hanno invaso i sacri limiti della sfera privata e nuove tecnologie rischiano di rendere vero il proverbio “ciò che viene detto nel salotto potrebbe uscire dal camino”. È necessario pertanto reclamare il diritto ad “essere lasciati soli”.
Il legame del termine privacy con la nascita della società contemporanea e la diffusione dei mezzi di comunicazione è forse la ragione per la quale è questa, delle tre parole di cui trattiamo in questo contributo, quella di più frequente uso nella pratica assistenziale. I francesi utilizzano il termine confidentialité, gli spagnoli privacidad e i tedeschi privatheit.
Gli italiani il termine inglese; i medici in particolare, specie coloro – la grande maggioranza – che hanno scarsa pratica con la lingua inglese, la pronunciano [‘pòaivəsi] accentuando l’ai, a sottolineare la dimestichezza con lingua e argomento. Ma Helen Mirren, interpretando il ruolo della regina Elisabetta nel film The Queen, pronuncia correttamente [‘pòivəsi], poiché parla inglese con pronuncia colta e non americanizzata. Con il termine privacy si intende ormai il controllo, da parte della persona, delle informazioni che la riguardano, nonché, nella nostra quotidianità assistenziale, quell’insieme di procedure che formalmente applichiamo, ma che nella sostanza spesso si infrangono per un insieme di situazioni sia ambientali (C’è la stanza per i colloqui con i pazienti e i loro parenti? Vi è uno spazio adeguato per conservare in sicurezza la documentazione? È stata realizzata l’informatizzazione sicura dei dati?), sia per una inveterata abitudine a parlare a voce alta, a colloquiare nei corridoi, a confidare ogni cosa tramite il cellulare, anche di fronte ad un ampio pubblico.
Forse, oltre a parlare di privacy, di dati sensibili, di funzione del Garante della privacy, è necessario, non per aggirare, ma per inverare di sostanza tale tematica, parlare anche di intimità e pudore. Bisogna parlare di intimità, con un certo pudore, misurare le parole, selezionare le citazioni. Intimità è sostantivo femminile di intimo, ciò che si trova nella parte più interna. Con il termine “le parti intime” si indicano i genitali; da ciò l’igiene intima o “l’intimo”, con cui si è giunti a designare la vecchia merceria, quando si trasforma in una boutique per mutande e sottoveste. L’aggettivo, attribuito a un individuo, viene ad identificare una persona a cui siamo legati da un intenso vincolo affettivo, da una comunanza di sentire o anche di collaborazione e fiducia.
Quando si parla di binomio intimità-cura si pensa a quell’insieme di atti assistenziali, diagnostici, curativi che pongono il medico e l’infermiere in relazione appunto al corpo del paziente. Sono persone che violano il pudore di altre persone, che si definisce come il naturale senso di ritegno per quanto riguarda sia l’intimità fisica sia l’intimità spirituale della propria persona e dell’altrui2; oppure sono persone che stabiliscono una relazione che le fa partecipi dell’altrui intimità.
Così anche un “esame obiettivo” può violare il pudore, quando, senza aver stabilito una relazione con il paziente, ne infrange l’intimità. Mirabilmente descritto, tale sentimento di violazione, da Tolstoj, che racconta del medico di grido che «[], volle visitare l’ammalata. Insisteva con particolare compiacimento sul fatto che il pudore verginale è solo un residuo di barbarie, e che non vi è nulla di sconveniente che un medico, se pur non del tutto vecchio, visiti una ragazza tastandone il corpo svestito. Gli pareva del tutto naturale, gli capitava ogni giorno, e non sentiva e non pensava che potesse esservi nulla di male: e perciò considerava il pudore di una fanciulla non solo un residuo di barbarie, ma un’offesa alla propria persona. […] Smagrita e arrossata, con un particolare luccichio negli occhi pel suo pudore violato, Kitty stava al centro della stanza. Quando il dottore entrò, avvampò tutta e gli occhi le si empirono di lacrime»3.
Il pudore viene violato in mancanza di intesa. L’intimità non esiste senza intesa e l’intesa senza comunicazione; vale a dire senza che fra un emittente (colui che invia o dovrebbe inviare il messaggio) e il ricevente non si instauri nessun particolare legame.
Procedure assai invasive possono essere invece accolte, in situazione diversa e più consapevole, senza che queste violino il pudore e «[…] anche il lavaggio intestinale per la nuova operazione – scrive invece Lucia Fontanella – è diventato un’accettabile procedura gestita con uno spiritoso infermiere fra disinnesco sacca merdifera in fase di esplosione, dighe di carta anti insozzamento, per me, e scudi improvvisati, per lui»4.
Ma l’intimità fisica, la violazione prossemica è solo una parte, non marginale, ma certo non esaustiva, del problema dell’intimità della cura. Perché l’intimità, come il pudore, non è riferibile solo al tema della fisicità e della sessualità. Vi sono ambienti intimi, per la loro atmosfera, fatta di segni architettonici, di arredi, ma essenzialmente di comportamenti; sono quelli in cui uno ritrova i segni di una familiarità o la possibilità di spazi, atmosfere, che favoriscano la confidenza e l’intesa.
Vi sono inoltre rapporti segnati dall’intimità, dalla vicinanza, anche non fisica, ma interiore.
Vi è un sentimento intimo, come vi è, ad esempio, il pudore non del proprio corpo, ma dei propri sentimenti. Quindi una gamma di condizioni che possono essere anche estranee agli elementi di fisicità di cura. La violazione, pertanto, non sempre è, e neanche si accompagna, ad una violazione fisica.
Nell’ambito del processo assistenziale, ci dobbiamo riferire a entrambe le valenze, che spesso si sovrappongono almeno in parte: intimità relazionale e intimità fisica.
Vi è una intimità condivisa, una intimità violata e, spesso, nelle nostre strutture sanitarie e attraverso le nostre regole, una intimità negata.
Il momento del parto pone un problema di relazione assistenziale con il corpo della donna. Ho visto, nel corso di gestazione e nascita, spesso intimità violate ma, in misura assai diffusa, intimità negate.
La nascita, prima della Controriforma, era un evento pubblico e tale era restato per le classi elevate e le dinastie che dovevano legittimare la propria discendenza. Poi da tale evento è stata esclusa dapprima la componente maschile e, nel Novecento, con la medicalizzazione della nascita, tutti i possibili compartecipi di un momento di intimità che non fossero operatori sanitari.
Solo lo status di medico ha consentito, per decenni, – e spesso anche ora – di assistere alla nascita di figlio o nipote. Subito dopo la nascita non sempre è favorito il rapporto di intimità madre-figlio. Solo in alcuni casi, in alcuni reparti è consentita, o anche favorita, la presenza della madre presso l’incubatrice di un neonato non a termine.
Non possiamo negare che passi a favore di una intimità al momento della nascita siano stati fatti. Mi domando tuttavia se lo stesso atteggiamento di allontanamento di “laici” non lo si attui in tanti momenti della cura, per regole che a noi sembrano iscritte in canoni igienici e organizzativi, e che sono invece solo le nostre abitudini.
Vi è poi la questione dell’intimità alla fine della vita.
Un momento inevitabile – come ovvio – talora atteso e auspicato (uso un termine un po’ estremo) da chi assiste e vede una fine inevitabile. Un momento che il familiare, il coniuge, il figlio, ritiene o riterrà, nel vissuto futuro, fondamentale, e spesso privato di qualsiasi valore nell’anonimato dell’organizzazione assistenziale. Quante volte un familiare si è rivolto a noi dicendo: non sono stato avvertito… l’ho trovato senza vita, dovevo dargli la giacca del pigiama… ed era morto! Ma il numero di telefono trascritto sulla cartella non era esatto, il parente non aveva capito (o non gli avevamo adeguatamente comunicato?) la gravità della situazione e quell’attimo di intimità – forse semplicemente ipotizzato – viene irrimediabilmente negato.
Vi è poi un’intimità con il defunto.
Qui concorrono anche, nella nostra società, riti e religioni diverse, della cui presenza ed esigenze non siamo pienamente consapevoli. L’intimità con il defunto – mi riferisco alla persona, ma anche al corpo e alla sua manipolazione – ha regole, riti, sensibilità diverse. Fin quando si confrontavano in Italia due religioni monoteistiche, la cristiana e l’ebraica, il problema non si percepiva. Il rito ebraico prevede una cura del defunto da parte dei familiari o del rabbino, mentre il mondo cattolico e cristiano affida, in maniera separata, la preparazione del defunto a enti, imprese funebri, che garantiscono la struttura sanitaria delle modalità di gestione e aderenza alle normative e regolamenti. Ma la comunità ebraica ha dimensioni ridotte, propri ambiti e adeguata elasticità di rapporti.
Più complesso diviene il rapporto, il rispetto dell’intimità, con l’altra religione monoteistica, il mondo musulmano, con una forte presenza nel nostro Paese e che ha sensibilità, esigenze, ritualità diverse nei riti funebri, che sono un momento elevato di intimità con la vita passata del defunto.
Il problema più diffuso, l’esperienza più comune e generalizzata in tutti i nostri ospedali e servizi concerne tuttavia l’intimità nel corso delle pratiche assistenziali. Vi è, negli atti medici e assistenziali (si pensi anche alle attività chirurgiche che violano l’interno del corpo del paziente), una potenziale violazione dell’intimità fisica. Un problema che investe paziente e curante e in cui il paziente presta il proprio corpo a un esame approfondito, e in cambio il medico rinuncia temporaneamente a una parte del proprio normale repertorio di reazioni e risposte, mantenendo solo quelle appropriate all’atto di cura. In altri termini possiamo affermare che il curante, sia esso medico o infermiere, fa un’astrazione nel momento di guardare, toccare e agire immune dai normali vincoli dell’intimità 5. Tale astrazione è possibile solo se si iscrive in un accordo, non formale, ma convinto ed elaborato, fra il paziente (e i familiari che sono gli attori della intimità) e i curanti.
Vi è un tipo di intimità terapeutica che va oltre la fisicità. La capacità di stabilire un rapporto con il paziente, che ne percepisca la potenziale non occasionalità, che sappia esprimere la capacità di riconoscere ansie e di assorbire la paura.
Come comportarsi? Forse ispirarsi a criteri di amicizia: un’amicizia professionale.
«L’amicizia professionale e l’amicizia ordinaria non sono la stessa cosa, ma molti aspetti si applicano a entrambe», scrive un noto studioso americano di bioetica. «Un amico è caloroso e accogliente a ogni incontro. Un amico fa piccoli complimenti…
Un amico è sempre pronto a parlare seriamente (se è quello che vuole il paziente), ma anche a scherzare e a chiacchierare. Un amico davvero solidale non esagera mai dal punto di vista emotivo, restando però sempre coinvolto, non si ferma mai troppo a lungo, sa quando tacere; non fa troppe domande. Un medico dovrebbe fare lo stesso»
6.
Marco Geddes da Filicaia
Ospedale Santa Maria Nuova
Azienda Sanitaria di Firenze
marco.geddes@asf.toscana.it


BIBLIOGRAFIA
1. Warren SD, Brandeis LD. The Right to Privacy. Harvard Law Review, IV, n.5 Dicembre 15, 1890.
2. “Pudore”, in Dizionario italiano ragionato. Firenze:
G. D’Anna editore, 1988.
3. Lev Tolstoj. Anna Karenina. Firenze: Sansoni, 1967, 91.
4. Fontanella L. La comunicazione diseguale. Roma:
Il Pensiero Scientifico Editore, 2011.
5. Macnaughton J, Evans M. Intimacy and distance in the clinical examination. In Ahlzén R, Louhiala P, Puustinen R. Medical Humanities Companion. Vol II. Oxford: Radcliffe Publishing, 2010.
6. Brewin T. The Friendly Professional. Eurocommunica Publications, Bognor Regis, 1996 (cit. in MH Rivista per le Medical Humanities, 12, 2009).