Una morte senza dolore
Maurizio Bonati
Dipartimento di Sanità Pubblica
IRCCS – Istituto di Ricerche Farmacologiche
Mario Negri, Milano
maurizio.bonati@marionegri.it



Giacinto Pannella (detto Marco) muore il 19 maggio in una clinica. Il giorno prima, a casa, attorniato dall’affetto dei suoi cari, chiede/acconsente di essere sedato e rivolge un “grazie” al medico. Viene quindi, in ridotto stato di vigilanza, trasferito in clinica. È l’immagine, la sequenza, di un diritto: il diritto a una morte senza ulteriore dolore. Il diritto a morire con dignità. Il diritto ad esprimere una decisione consapevole. Il diritto di respingere una ulteriore sofferenza, una crudeltà inutile. Quanti possono fare lo stesso? Pochi. Il diritto ad una morte dignitosa, consapevole e senza inutile dolore è ancora un diritto inevaso. Per il testimone prevale il sentimento di compassione verso il morente (o il malato terminale), per l’infelicità altrui. Ma una compassione attiva (misericordia) dovrebbe prevedere anche una partecipazione attiva per garantire una morte senza dolore. Non è facile, è complicato, bisogna essere preparati, bisogna prepararsi prima quando si è in vita e lontani dalla morte (propria e altrui).
Questa morte senza dolore è altra cosa dall’eutanasia. La scelta di Pannella è diversa da quella, per esempio, di Lucio Magri che decise di ricoverarsi in una clinica svizzera per il suo “suicidio assistito”. Altra ancora da quella di Mario Monicelli o di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby. Questa morte senza dolore è altra cosa dalle cure palliative che devono (o dovrebbero) essere praticate prima. Sulla vita e sulla morte ciascuno ha le sue convinzioni che vanno rispettate, a queste però non sempre corrispondono uguali diritti.
Tema ostico e complesso che ci trova impreparati, sulla cui riflessione si rimanda volentieri e quando si è costretti si rimanda a decisioni altrui. Si delega ad altri: a chi di cui si ha fiducia o a chi ci si affida (il medico).
In una società analfabeta di scienza e sanità è difficile parlare e pensare attorno alla morte. Difficile prepararsi e adoperarsi con coscienza e consapevolezza perché già gli imprevisti sanitari della vita sono vissuti con paura1. Tra le tante paure più o meno razionali generate dalla non conoscenza, dalla difficoltà a comprendere anche in modo appropriato ed elementare ci sono le malattie. In una delle sue “pillole” su La Lettura Giuseppe Remuzzi ricorda come nei drammi di Shakespeare e nell’attività dei medici vita e morte si rincorrono e si confrontano continuamente2, e ricorda il personaggio di Cimbellino, Re di Britannia, che declama: “La medicina prolunga la vita ma alla fine la morte si porta via anche il dottore”. È vero. Ma oggi a differenza del XVI secolo i ruoli e le responsabilità sono ulteriormente rimarcate per entrambi. Il medico oggi non ha tra i fini della propria attività solo quello di prolungare la vita, ma anche adoperarsi per la qualità della vita (tema ricorrente, per esempio, in ambito oncologico) così come deve/dovrebbe affrontare/aiutare alla qualità/dignità della morte. A questo rimanda il “grazie” di Pannella al medico. È il ringraziamento di un paziente al termine di un percorso (la vita) caratterizzato da “incidenti” vissuti attivamente esplorando il proprio corpo (per Pannella si potrebbe dire anche usando il proprio corpo), con le nuove abitudini a cui la malattia costringe, gli intoppi sul futuro, la dipendenza dagli altri per le attività quotidiane e vitali. Il recente libro dell’antropologa Clara Gallini 3 è una testimonianza preziosa per questa riflessione. Come è preziosa la testimonianza del giovane neurochirurgo Paul Kalanithi costretto a rielaborare il tempo rimastogli per imparare a morire: “la morte ti disorienta, eppure non c’è altro modo per vivere”4.
Per concludere (o iniziare?) si può ricordare anche l’esperienza di Harvey Max Chochinov per migliorare la qualità delle cure su cui possono contare  le persone che si avvicinano alla morte (i propri diritti, con altre parole)5.
Un’iniziativa, definita “terapia della dignità”, sviluppata per ridurre la sofferenza che pervade le persone alla fine della vita, ma anche (e insieme) per la resilienza delle persone che restano.
Quel segno di gratitudine estrema, di umiltà, di riconoscenza, è il saluto sereno da una vita partecipata: “grazie”.


BIBLIOGRAFIA
1. Demicheli V, Massobrio G, Narbone L. Contro la paura. Milano: Baldini & Castoldi Editore, 2016.
2. Remuzzi G. La diagnosi del dott Shakespeare. La lettura, Corriere della Sera, domenica 22 maggio 2016, pag.19.
3. Gallini C. Incidenti di percorso. Roma: Nottetempo Editore, 2016.
4. Kalanithi P. Quando il respiro si fa aria. Trauzione di Faimali M. Milano: Mondadori Editore, 2016.
5. Chochinov HM. Terapia della dignità. Edizione italiana a cura di Moretto G, Grassi L. Roma:
Il Pensiero Scientifico Editore, 2015.