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Povertà/disuguaglianze, cioè salute

Esiste, e gli ultimi dati Istat sulla riduzione della aspettativa di vita rielaborati dal Rapporto Osservasalute presentato lo scorso mese di aprile ce lo hanno ricordato, un legame stretto, in questi anni fortemente appesantito dalla crisi, tra salute, disuguaglianze e/o povertà. Di tale legame R&P ne ha fatto uno dei tratti della propria linea editoriale, nella consapevolezza che i determinanti sociali, per l’appunto, determinano la salute delle persone, siano queste già o non ancora pazienti, delle comunità in cui queste vivono, ma anche l’efficacia e l’efficienza dei sistemi sanitari, ovvero la qualità del lavoro e delle pratiche dei tanti e diversi professionisti coinvolti. In particolare, quelli che si occupano sia dell’accesso – pensiamo ai pronto soccorso – che della continuità assistenziale e della medicina territoriale. Riflettere, quindi, sulle politiche di contrasto alle disuguaglianze e/o povertà non è, o non dovrebbe essere, altro per chi si interessa di economia sanitaria, o di epidemiologia, o di materno infantile, o di medicina delle migrazioni, o di cronicità, o di partecipazione dei cittadini, ecc. L’efficacia o meno di tali politiche ha conseguenze rilevanti, a volte solo apparentemente indirette, sugli interventi sanitari. Un dato che si può dare per acquisito.
Tra le diverse modalità di intervento di contrasto alle disuguaglianze e/o povertà (politiche attive del lavoro, della casa, di contrasto alla dispersione scolastica, ecc.), il tema della riforma dell’assistenza economica continua ad essere nell’agenda politica, o direttamente – basti pensare alla richiesta di riordino degli attuali trasferimenti economici e alla introduzione di una misura universalistica di reddito di base di nuovo in discussione ma presente da una trentina di anni – o indirettamente – attraverso gli interventi di natura fiscale o nella regolamentazione delle compartecipazioni ai servizi – come prevede l’ultima legge di stabilità.



Al di là che sia considerato o meno una effettiva priorità dell’agenda dei diversi policy makers e collegati stakeholders, attorno ad esso, come è facile immaginare, si confrontano posizioni tra le più diverse: sul giudizio di quanto si è fatto e quindi di chi, con cosa e come si è garantito fino ad oggi; sui criteri di individuazione/selezione/ meritevolezza dei destinatari delle vecchie e/o nuove misure da riformare/introdurre; sulle finalità di policy che si vogliono perseguire; sulle tipologie di misure da utilizzare; sulle risorse pubbliche da reperire, ovvero da riconvertire; sulla governance (più o meno multilivello, ovvero accentrata – leggi: conseguenze della riforma istituzionale recentemente approvata e oggetto del prossimo referendum) con cui applicarle e implementarle; ecc.
In particolare, tre sono le questioni che rendono attualmente impegnativa una efficace soluzione politica:
la perimetrazione del problema su cui intervenire – nel dibattito politico si incrociano e sovrappongono, spesso confusamente, povertà assoluta, relativa, deprivazione, disuguaglianza, di reddito, di consumi, ecc.1;
la conseguente difficoltà di stabilire quale debba essere l’oggetto dell’intervento di riforma, ovvero quali misure in essere prendere in considerazione e quali introdurre di nuove; basti pensare che il diverso ammontare di risorse pubbliche – secondo la classificazione Istat, la spesa sociale in trasferimenti monetari era di 25 miliardi € circa (stime 2009), mentre secondo la classificazione precedentemente utilizzata dalla Commissione Onofri (sempre con dati 2009) questo importo raggiungeva i 43 miliardi €, per arrivare secondo i calcoli di Irs di Milano e Capp di Modena ai 56,8 miliardi € (2012) – trova tra i vari stakeholder sostenitori e detrattori di una soluzione piuttosto che di un’altra, per l’ovvio motivo che ognuno difende, a partire dai dati su cui discutere, i propri interessi;
il riconoscimento che la crisi ha aggravato il quadro generale, sia sul piano del reddito (calato) che dei consumi (aumentato costo della vita) che dell’indebitamento delle famiglie; soprattutto nel Sud, per l’infanzia già povera e quella deprivata (famiglie numerose), per le famiglie monoreddito, per le famiglie giovani; le politiche di governo del debito pubblico hanno avuto il sopravvento rispetto alle politiche di sviluppo e di spesa pubblica, ipotecando seriamente la possibilità di intraprendere soluzioni innovative, ovvero aggiungendo qualche nuova misura alle già molte esistenti di tipo categoriale, disperdendole nei tanti canali/soluzioni/gestori esistenti, confermando comunque l’iniquità di fondo 2.

NORMATIVE SPECIFICHE E RIFORME COMPLESSIVE, PER IL MOMENTO ANCORA PROPOSTE…
Tenuto conto di, o nonostante, questo scenario, in questi anni la crisi ha pure sollecitato iniziative e proposte di legge basate su prospettive, priorità e visioni diversificate: quella denominata Come minimo – del Gruppo Basic Income e Sbilanciamoci.org; quella del Reddito di inclusione sociale – della Alleanza contro la povertà con Acli, Caritas, Cisl e altri; quella di Costruiamo il welfare di domani – di Irs e Capp; quella del Reddito di dignità – di Libera; nonché quelle del Pd, del M5stelle e di Sel; per citarne alcune e senza contare quelle regionali.
Con la recente legge di Stabilità 2016, il Governo Italiano ha previsto 1,5 miliardi di € per finanziare diverse misure di contrasto alla poverta: l’Asdi (600 milioni€), il Sia (750 milioni €), la social card (250 milioni €). E ha inoltre previsto un ddl delega per un Piano di lotta alla povertà: con l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà, individuata come livello essenziale delle prestazioni da garantire in tutto il territorio nazionale; la razionalizzazione delle prestazioni di natura assistenziale, nonché di altre prestazioni anche di natura previdenziale, sottoposte alla prova dei mezzi; il riordino della normativa in materia di sistema degli interventi e dei servizi sociali.
Nel suo ultimo rapporto3 anche la Fondazione Zancan arriva a presentare, attraverso un gruppo di lavoro coordinato da Emanuele Rossi, costituzionalista della Scuola Sant’Anna di Pisa, una proposta di legge che, al pari di alcune tra quelle appena citate, ha come finalità un intervento di riforma complessiva del sistema della cittadinanza sociale nel nostro paese, basata su una nuova idea di welfare come sottolinea Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione. Si tratta di una legge a livello statale dal titolo particolarmente significativo: Welfare generativo e azioni a corrispettivo sociale. In essa trova sintesi un percorso di ricerca multidisciplinare e di discussione pubblica in corso da molti anni, prima in parte condiviso con la Caritas Italiana e dal 2012 sviluppato autonomamente dalla stessa Zancan, soprattutto con i suoi rapporti annuali. I capisaldi della norma possono essere così riassunti:
welfare generativo è l’insieme delle modalità di rigenerazione e rendimento delle risorse a disposizione del sistema di welfare, mediante la responsabilizzazione dei soggetti destinatari delle forme di sostegno; un welfare basato sul solo “raccogliere” attraverso la tassazione e “redistribuire” attraverso le istituzioni pubbliche, lo si ridisegna introducendo i principi del “rendere” cioè dall’apporto trasformativo delle capacità e delle risorse degli aiutati definito in termini di outcome individuale, del “rigenerare” valore verso la comunità cioè dell’impatto sociale sulla stessa, e “responsabilizzare” nel senso di coniugare per ognuno diritti e doveri4;
nel concreto si tratta di collegare l’erogazione di una prestazione assistenziale all’attivazione del soggetto destinatario della stessa, nei termini di un impegno sociale a favore della collettività;
le prestazioni considerate sono gli interventi assistenziali oggi previsti dalle varie normative, gli ammortizzatori sociali ordinari e in deroga, le indennità di mobilità e disoccupazione, ogni altra prestazione connessa alla cessazione del rapporto di lavoro o alla sospensione-riduzione dell’attività lavorativa, gli interventi di politica attiva del lavoro, gli interventi di protezione umanitaria, e in prospettiva misure e interventi di esecuzione penale esterna, messa alla prova e affidamento ai servizi sociali;
tale impegno è volontario, il diniego non può essere considerato una pregiudiziale per l’ottenimento della prestazione assistenziale, e comporta che il soggetto sia attore responsabile dell’iniziativa che lo coinvolge;
le azioni sono, di conseguenza, definite a corrispettivo sociale, in quanto finalizzate all’accrescimento del capitale sociale di una comunità, territorio, nazione tutta;
esse riguardano il rafforzamento dei legami sociali, l’aiuto delle persone deboli e svantaggiate, la tutela e promozione del patrimonio culturale e ambientale, la tutela e promozione della salute, il diritto all’educazione, il contrasto alle discriminazioni, la protezione civile;
i promotori delle azioni a corrispettivo sociale sono molteplici e ad essi viene richiesta una logica collaborativa/cooperativa/integrata: gli enti pubblici territoriali; il Terzo settore; gli enti religiosi; i cittadini attivi, ovvero coloro che a prescindere da vincoli associativi formali siano interessati a condividere la cura dei beni comuni e lo svolgimento di attività di utilità sociale;
le modalità di attuazione si basano su procedure simili a quelle utilizzate per il Servizio civile nazionale (registrazione dei promotori in un registro istituito a livello comunale; presentazione di proposte di attività a corrispettivo sociale; garanzia di non sostituzione del lavoro retribuito; copertura assicurativa);
le proposte di attività a corrispettivo sociale vengono monitorate e valutate dal punto di vista del valore sociale prodotto, di capitale sociale ed economico, e gli enti promotori sono obbligati a rendere pubblico – con una specie di bilancio sociale – il valore realizzato e il suo reinvestimento.

IL WELFARE GENERATIVO, MOLTO PIÙ CHE UN PROGETTO DI RIFORMA?
Un progetto di legge che, partendo dalla necessità di intervenire sulle politiche di contrasto e risposta alla povertà, intende favorire una riforma complessiva del sistema di welfare – nei lavori della Zancan si accenna anche alle politiche sanitarie senza per il momento entrare nel merito con specifiche proposte normative –, in una fase come l’attuale, oltre che utile dal punto di vista politico, è rilevante sul piano del dibattito pubblico. Se si considera il richiamo ai suoi capisaldi teorici, morali e giuridici, essa può sembrare per certi aspetti addirittura ambiziosa.
Tutto questo, a parere di chi scrive, deve essere considerato più un pregio che un difetto. Non sono, detto altrimenti, queste caratteristiche che sollevano interrogativi, quanto invece la logica intrinseca che ne sta alla base, le conseguenze pratiche che la traducono e gli effetti/conseguenze delle interazioni nella discussione pubblica. Qualche esempio.
A fondamento del welfare generativo c’è una idea di società e di persona. Forte è il richiamo alla Dottrina sociale della Chiesa, compreso il magistero sociale di papa Benedetto XVI e di papa Francesco. Temi morali quali la solidarietà, la responsabilità, la centralità della persona, il superamento dell’individualismo nelle sue diverse declinazioni, il bene comune, l’aiutare ad aiutarsi ovvero la sussidiarietà nella sua accezione antropologica, ecc., sono spesso richiamati e portati a sostegno. Così come fortissimo è il richiamo alla prima parte della Costituzione, in particolare agli artt. 2- 3 -4, ovvero ai diritti umani fondamentali, alla pari dignità e uguaglianza di fronte alla legge, al dovere della Repubblica di rimuovere quanto ostacola tutto ciò, al diritto ma anche al dovere di solidarietà, al dovere di concorrere secondo le proprie possibilità e le proprie scelte al progresso materiale e spirituale della società. Il pensiero e l’esempio di mons. Giovanni Nervo e di mons. Giuseppe Pasini, già fondatori e presidenti della Fondazione, sono oggettivamente inconfondibili. Altrettanto importante, maturata nel corso della oramai decennale attività della Fondazione e sua mission originaria, è l’idea emancipativa di servizio sociale, centrata sulla persona in condizione di bisogno, sulle sue capacità e potenzialità da riattivare, sulla relazionalità, ma soprattutto sul rifiuto di ogni deriva assistenzialistica, ovvero di mantenimento e riproduzione cronicizzata dello stato di bisogno. In terzo luogo, la forte preoccupazione alla valutabilità di quanto viene progettato/realizzato/ erogato. Non è solo una questione di tecniche più o meno efficaci, in ogni caso particolarmente raffinate, quanto di deontologia della ricerca e dell’intervento sociale (dare conto dell’efficacia) oltre che di visione politica (verificare per meglio raggiungere obiettivi democraticamente costruiti). Quarto, insieme alle problematiche legate alle povertà e alle politiche di contrasto e risposta – con forte attenzione a quelle dell’infanzia – e al servizio sociale, nella proposta confluiscono i risultati di altri filoni di ricerca e intervento su cui la Zancan si è cimentata nel corso della sua storia: il volontariato, il servizio civile, la protezione civile, l’imprenditoria sociale, l’integrazione delle politiche locali sociali e sociosanitarie, il servizio sanitario nazionale, ecc.
Al contempo, in essa trovano eco, quando non sono esplicitamente citati, diversi approcci e concezioni caratterizzanti il dibattito in corso. Basti pensare all’idea di welfare come investimento e non come costo (con riferimenti che vanno dal social investment di Maurizio Ferrera di www.secondowelfare.it, al social impact investment – recentemente, anche per lo sviluppo di questo approccio, è nata una associazione europea di giuristi, European Social Enterprise Law Association – ESELA), che ha tra i promotori italiani Roberto Randazzo del Politecnico di Milano); alla generatività come visione politica (l’Istituto Sturzo e l’Amed – Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo della Università Cattolica – nel 2010 hanno dato vita all’ Archivio della Generatività Italiana); ad un’idea di economia oltre il pil (ad es. l’economia civile proposta da Stefano Zamagni e dalla Scuola bolognese) e di attori economici che, seppur giuridicamente diversi, si contaminano valorialmente e si integrano operativamente in una concezione di imprenditoria sociale che supera la rigida separazione tra profit e non profit (come da tempo sostiene Giorgio Fiorentini della Bocconi di Milano); all’idea di capacità riconducibile a A. Sen e a M. Nussbaum; ad una visione non autoreferenziale delle istituzioni pubbliche e alla necessità di un diverso rapporto tra queste e i mondi vitali di riferimento (come evidenziava Achille Ardigò già nel 1980) 5; alle esperienze in molti paesi Ocse, e al conseguente dibattito pubblico, sulle politiche di attivazione, misure promozionali per un veloce ingresso o reinserimento nel mercato del lavoro attraverso forme varie di supporto e pressione sui beneficiari (in letteratura, uno degli idealtipi di tali misure riguarda la promozione di attività per disoccupati; in Italia questo dibattito è stato seguito e alimentato, tra gli altri, dal Comitato scientifico de La Rivista delle Politiche Sociali promossa dalla Cgil, e ora confluito nella rivista Politiche Sociali edita da Il Mulino, diretta da M.L. Mirabile e V. Fargion).
Questa sintetica e necessariamente incompleta comparazione tra fondamenti e riferimenti sollecita un primo interrogativo: mentre è chiara la diversa impostazione della proposta normativa rispetto alle altre presentate in tema di risposta e contrasto alla povertà, dove sta la distintività del welfare generativo rispetto a questo background di approcci e concezioni multidisciplinari? Il welfare generativo è solo la declinazione, o la sintesi, in chiave di intervento sociale, di un movimento di pensiero più ampio e composito? Se così fosse, non necessiterebbe un approfondimento critico più sistematico con lo stesso? Anche per evitare, rischio particolarmente diffuso nel nostro Paese, che anche questo nuovo welfare si riduca ad un esercizio retorico, ovvero una comunicazione pubblica senza riferimento a dinamiche concrete. Sono infatti almeno quarant’anni che si parla di crisi del welfare state (rinvio, di nuovo, ad Achille Ardigò) e in questo lungo tempo moltissimi sono stati gli aggettivi che hanno cercato di qualificare un nuovo che però non è poi risultato così tale6. Al contempo, il crescente utilizzo del termine welfare generativo, spesso con significati tutt’altro che omogenei, se da una parte sottolinea l’efficacia comunicativa dell’idea, dall’altra però non conferma il rischio appena paventato?
In secondo luogo, sempre rispetto ai fondamenti, essa non rischia di semplificare quello che invece è il complesso rapporto tra lavoro e non lavoro, sia sul piano morale che su quello pratico?7 L’idea di correspettivo sociale risolve il problema del (non) corrispettivo economico? In altri termini, molte delle mansioni evocate/presupposte con riferimento ai diversi campi di intervento in cui si applicherebbe la norma possono essere riconosciute contrattualmente (il passeggio di una persona disabile in carrozzella può essere garantito da caregiver familiare con o senza supporto economico pubblico, da un operatore sociosanitario contrattualizzato, da un assistente familiare con o senza contratto, da un volontario e da un attore di welfare generativo a corrispettivo sociale). Inoltre, non si prevede che i promotori di progetti di welfare generativo producano forme di accountability che dimostrino il valore sociale, in termini di capitale sociale ma anche di capitale economico, reinvestito grazie a tali attività? Quindi, una valorizzazione economica c’è e se è tale non si incentiva, implicitamente, quella crescente area grigia tra lavoro/non lavoro di cui soffre pesantemente l’economia e la cultura civica italiana?
Un terzo interrogativo entra nel merito della strutturazione e funzionamento della proposta. I destinatari, come abbiamo visto, sono persone e famiglie in condizioni diverse – dagli assistiti del servizio sociale, ai disoccupati, ai detenuti in probation, ecc. Non si tratta di situazioni alquanto differenti rispetto alle quali il modello può avere quantomeno efficacia diversa? In altri termini, mentre per un disoccupato scolarizzato, con un background sociale favorevole, l’idea di attivarsi con azioni a corrispettivo sociale può essere coerente con la propria formazione civica e accettato perché considerato utile in termini di relazioni e opportunità sociali e quindi di miglioramento del curriculum per una futura rioccupazione (è quanto segnalano alcune associazioni di volontariato impegnate nei trasporti sanitari e sociali), per una madre sola con figli piccoli, magari con una storia familiare di esclusione sociale cronicizzata, vale lo stesso? Ora, l’esperienza ci dimostra che molto spesso gli interventi di recupero/riabilitazione/rieducazione sociale di persone in condizione di marginalità ed esclusione si sono costruiti proprio promuovendo percorsi concreti di risocializzazione con le proprie responsabilità, verso sé stessi e verso gli altri. Ma in questo caso gli attori, in primis, non sono state le persone interessate ma operatori e volontari, pubblici e del privato sociale, che con percorsi a volte strutturati a volte più naif si sono attivate per progressivamente riattivare chi non era attivo, ovvero “hanno usato la propria libertà per ridare la libertà a chi libero non è” come efficacemente sintetizza don Luigi Ciotti.
Un’ultimo quesito riguarda uno dei presupposti della idea di welfare generativo. Come detto, e assolutamente condivisa da chi scrive, forte è la preoccupazione della Fondazione Zancan di fare in modo che le risorse pubbliche impiegate per riconoscere un diritto sociale fondamentale abbiano un effettivo esito positivo, ovvero servano a far uscire dalla condizione di povertà chi ne usufruisce e possano, nei limiti del possibile, rigenerarsi. Ora, posto che le condizioni di bisogno sono diverse (vedi quesito precedente), perché i protagonisti delle azioni a corrispettivo sociale che ne sono in grado non vengono orientati ad attività lavorative vere, magari a carattere autoimprenditoriale o di impresa sociale, e la quota di trasferimento economico assistenziale a loro erogata sia gestita con una funzione di supporto allo start up di tali attività o comunque di riduzione del costo del lavoro almeno per la fase di reinserimento lavorativo? Peraltro, un approccio di questo tipo, come hanno dimostrato alcune esperienze di save/rescue company8 – ad esempio: salvataggio di aziende in crisi attraverso la creazione di cooperative composte dai lavoratori fruitori di ammortizzatori sociali – a determinate condizioni ha funzionato. È evidente che qui si entra nel dibattito sulle politiche di sviluppo economico e del lavoro, ovvero del riconoscimento di un lavoro dignitoso per tutti, nel senso di creare lavoro “buono” e/o di “bonificare” il lavoro “cattivo” che non da dignità e che vede coinvolti molti poveri più o meno assistiti – dai working poor, ai lavoratori dell’economia informale, ai lavoratori irregolari, ecc. – ma anche non pochi “opportunisti” che grazie a misure categoriali (e quindi discriminatorie) che li garantiscono svolgono al contempo una occupazione non regolare ricevendo così un secondo stipendio esentasse. In altri termini, si tratterebbe di ripensare la proposta tenendo conto non solo degli art. 2-3-4 della Costituzione, ma anche dell’insieme degli articoli che si occupano di lavoro – a partire dall’art. 1 – e di impresa. Ovviamente questo non elimina la necessità di azioni di contrasto e superamento della povertà per condizioni specifiche che le necessitano (l’esempio dei bambini e della mamma a cui abbiamo accennato), ma rifocalizzarebbe la questione su quello che riteniamo, non da soli, essere la questione chiave, quella di un lavoro dignitoso per tutti.
Massimo Campedelli
Affiliate researcher
DIRPOLIS Institute,
Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
massimocampedelli@gmail.com

BIBLIOGRAFIA
1. Delbono F, Lanzi D. Povertà di che cosa? Risorse, opportunità, capacità. Bologna: Il Mulino, 2007.
2. Saraceno C. Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi. Milano: Feltrinelli, 2015.
3. Fondazione Zancan. Cittadinanza generativa. La lotta alla povertà. Rapporto 2015. Bologna: Il Mulino, 2015.
4. Vecchiato T. Fondazione Zancan, Welfare generativo. Responsabilizzare, rendere, rigenerare. Lotta alla povertà. Rapporto 2014. Bologna: Il Mulino, 2014.
5. Ardigò A. Crisi di governabilità e mondi vitali. Bologna: Cappelli, 1980.
6. Campedelli M. Il welfare della Costituzione. Annale de Il Regno 2012-2013. Bologna: Edizioni Dehoniane, 2014.
7. Natoli S. Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio. Milano: Mondadori, 2010.
8. Avallone G, Randazzo R, a cura di. Impresa Sociale: innovazione e sviluppo. Save the company. Reggio Emilia: Diabasis, 2010.




L’esperienza di “Lo sai mamma?”
L’idea di “Lo sai mamma?” nasce in maniera quasi fortuita nel 2005 nel corso di una campagna informativa sull’allattamento al seno e sui latti formulati, che ha visto coinvolti l’IRCCS – Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Federfarma Lombardia e l’Associazione Culturale Pediatri (ACP).
Il Progetto nasce come parte dell’attività del Laboratorio per la Salute Materno Infantile dell’Istituto Mario Negri di Milano, che da sempre ha tra le sue principali finalità il trasferimento dell’informazione sulla salute agli operatori sanitari e ai cittadini/pazienti.
A partire dall’esperienza maturata con la prima campagna informativa, sì è deciso di proseguire con la realizzazione di schede informative rivolte alle mamme (e ai papà) con brevi informazioni utili sulla gestione dei problemi di salute in età pediatrica che più frequentemente i genitori pongono al medico e sulle buone pratiche per favorire il benessere complessivo del bambino. A questo proposito la lunga esperienza del Centro di Informazione sul Farmaco e la Salute ha aiutato a definire le tematiche da affrontare.
Nonostante la presenza nel gruppo di lavoro promotore di un istituto di farmacologia e dei farmacisti, il riferimento ai farmaci nelle schede è quasi trascurabile, a sottolineare come la promozione della salute del bambino si attui prevalentemente attraverso l’adozione di modelli educativi e comportamentali che evitando ansie eccessive affranchino i genitori. “Lo sai mamma?”è inteso come strumento per una genitorialità più appropriata.
Alcune parole chiave hanno caratterizzato il percorso di “Lo sai mamma?”. Ne ripercorriamo brevemente alcune, per sottolineare le peculiarità di questa esperienza.
Collaborazione/contaminazione: tutte le schede informative sono state realizzate con il contributo delle diverse figure coinvolte: ricercatori, farmacisti, pediatri, che hanno portato competenze ed esperienze differenti, creando strumenti condivisi.
Coinvolgimento dei genitori, destinatari dell’informazione anche attraverso una revisione formale del materiale prodotto, sulla leggibilità, comprensibilità e utilità delle schede.
Essenzialità: riassumere il testo nello spazio di una facciata di foglio A4 ha rappresentato un compito non semplice, ma andava incontro all’esigenza di fornire informazioni brevi e rapide da leggere, rimandando al colloquio con il pediatra e il farmacista l’approfondimento e i chiarimenti di eventuali dubbi.
Evidenza: è stato compiuto uno sforzo di ricerca e valutazione delle fonti, perché le informazioni riportate nelle schede non fossero auto-referenziali e auto-referenziate, ma fossero il più possibile basate sulle evidenze scientifiche.
Integrazione: non solo tra figure diverse, ma anche tra mezzi/stili di comunicazione differenti, in una contaminazione tra modalità vecchie e “meno vecchie” (come dice Luca De Fiore è assurdo continuare a parlare di nuovi media quando questi esistono da più di 10 anni): il foglio di carta distribuito in farmacia si è affiancato alla scheda pubblicata su Ricerca&Pratica, al volume che ha raccolto le schede, al pdf pubblicato sui siti internet dell’Istituto Mario Negri, di Federfarma Milano prima e ora anche su quello di Federfarma nazionale, e dell’ACP, ai post (più o meno estemporanei) su Facebook, Twitter, blog e infine al tentativo di dare vita a un progetto “wiki” con “wikipediatra”.



Sfide: la collaborazione tra figure diverse ha rappresentato per certi aspetti una sfida, ma lo è ancora di più il coinvolgimento attivo dei genitori, non solo nella valutazione e revisione del materiale prodotto, ma anche nella produzione di informazione. È l’ambizione con cui è nato wikipediatra, di cui non sono ancora state sfruttate pienamente le potenzialità.
La sfida più grande è essere disponibili all’ascolto e a fornire risposte accurate e appropriate.
Educazione: il coinvolgimento e la partecipazione non possono, comunque, prescindere da un percorso di reciproca educazione per riconoscere quali sono i reali bisogni di salute e quali quelli indotti, più o meno consapevolmente, da soggetti “altri”. Informazione partecipata significa anche essere consapevoli di quali sono i condizionamenti e gli interessi e a valutare in maniera critica l’attendibilità e indipendenza delle fonti.
Antonio Clavenna, Maurizio Bonati
Laboratorio per la Salute Materno Infantile,
Dipartimento di Salute Pubblica, IRCCS – Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano
antonio.clavenna@marionegri.it







Progetto Sorveglianza Bambini 0-2 anni
Sintesi dei risultati della sperimentazione

Nel periodo perinatale e nei primi anni di vita, la riduzione dell’esposizione a fattori di rischio e la promozione di fattori protettivi sono azioni efficaci per prevenire alcuni rilevanti problemi di salute del bambino e della sua futura vita d’adulto. In un’ottica di continuità e valorizzazione dell’esperienza maturata fino ad oggi nel Paese con altri sistemi di sorveglianza di popolazione, il Ministero della Salute/CCM (Centro nazionale per il Controllo e la prevenzione delle Malattie) ha promosso e finanziato un progetto per sperimentare un sistema di sorveglianza dei principali determinanti di salute del bambino, da prima del concepimento ai 2 anni di vita, inseriti nel programma nazionale GenitoriPiù. Il progetto – coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con 5 Regioni (Campania, Calabria, Marche, Puglia, Veneto), l’ASL Milano (oggi ATS della Città Metropolitana di Milano) e l’Università Ca’ Foscari Venezia – ha previsto il disegno, la sperimentazione e la valutazione di tale sistema in un’ottica di estensione nazionale e di ripetibilità nel tempo. La sperimentazione ha coinvolto 13 Distretti Sanitari, 153 professionisti sanitari e oltre 14.000 madri.
Il Sistema di Sorveglianza ha raccolto informazioni su alcuni determinanti di salute del bambino da prima del concepimento ai 2 anni di vita (vedi figura) ed è stato disegnato al fine di produrre indicatori che consentano confronti territoriali e intertemporali e che sono, almeno in parte, richiesti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità e/o dai Piani Nazionali e Regionali della Prevenzione.
Le informazioni sono state rilevate all’interno dei Centri vaccinali (CV) mediante un questionario somministrato alle madri in occasione della seduta vaccinale del proprio figlio. La rilevazione si è caratterizzata come una indagine campionaria finalizzata a produrre stime rappresentative a livello di Distretto Sanitario. Pertanto, tutti i CV dei Distretti selezionati sono stati invitati a partecipare alla raccolta dati.
“La raccolta dati ha creato un’occasione in più perché mamma/operatore comunicassero tra loro. È stato molto positivo che in una sede vaccinale non si sia parlato esclusivamente o per la maggior parte del tempo di vaccinazioni...”; “Le mamme si sono sentite protagoniste”; “L’esperienza della sorveglianza ha creato un ponte di collegamento tra gli operatori e le mamme…”.




CONCLUSIONI
La sperimentazione della Sorveglianza ha mostrato delle grosse potenzialità per monitorare alcuni determinanti di salute nella prima infanzia e soddisfare un importante bisogno conoscitivo del Paese.
I dati raccolti evidenziano una grande variabilità dei comportamenti adottati dalle madri nei confronti dei propri figli rispetto ai determinanti indagati, indicando la presenza di un bisogno informativo da parte delle madri sulle raccomandazioni esistenti. Sebbene tali dati non siano rappresentativi della situazione nazionale, essi mostrano, da una parte, l’importanza di avere dati in grado di orientare la programmazione d’interventi di promozione della salute nei primi anni di vita del bambino e di monitorarne gli effetti e, dall’altra, esemplificano chiaramente come il sistema sperimentato sia in grado di produrre tali dati.
La valutazione dell’esperienza della Sorveglianza, fatta dai professionisti coinvolti nel progetto, ha evidenziato come sia possibile procedere nella direzione di un Sistema di Sorveglianza Nazionale purché si affrontino le criticità emerse durante la sperimentazione.
L’estensione della Sorveglianza all’intero territorio nazionale rappresenta, quindi, un’opportunità da cogliere e una sfida da affrontare.
www.genitoripiu.it/pagine/progetto-sorveglianza-zero-due/progetto
Erica Pizzi, Angela Spinelli
Istituto Superiore di Sanità
enrica.pizzi@iss.it




25 anni per i diritti dell’infanzia: ancora insufficienti!

Condividiamo il Comunicato Stampa riguardante la presentazione del 9° rapporto di monitoraggio sull’attuazione della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia realizzato dal gruppo CRC, network composto dalle principali associazioni che si occupano attivamente della tutela e promozione dei diritti dell’infanzia in Italia, di cui fa parte anche l’IRCCS – Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano.

ADOLESCENTI IN ITALIA: UNA RISORSA PREZIOSA NON SOSTENUTA DA POLITICHE IDONEE
Nel 25° anniversario dalla ratifica in Italia della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, il 9° Rapporto del Gruppo CRC fa il punto sulla sua attuazione.
Sono 2.293.778 gli adolescenti dai 14 ai 17 anni che vivono in Italia, di questi 186.450 sono stranieri. Trascorrono le loro giornate con il telefonino in mano (il 92,6 %); fanno uso di alcol, tabacco e cannabis (63,4%), conoscono il sexting, l’11,5% di loro gioca d’azzardo on line e oltre il 50% ha subito azioni di bullismo e/o cyberbullimo; 7000 di loro vivono in comunità, con molte incertezze sul loro futuro dopo il compimento del 18esimo anno. Studiano, ma molti di loro abbandonano dopo la scuola dell’obbligo, soprattutto gli alunni disabili. Il 2,2%, infatti entra, suo malgrado, a far parte della categoria dei “NEET” (not in education, employment or training), ovvero quei giovani che non studiano e non lavorano, e non sono inseriti in un percorso di formazione. L’Istat ne ha contati addirittura 2 milioni nel 2014, circa il 24% dei giovani tra i 15 e i 29 anni. Certo è che l’Italia è anche tra i paesi europei con il più alto tasso di dispersione scolastica: il 15% dei ragazzi tra 18 e 24 anni ha conseguito al massimo il titolo di scuola media. Nel 2015, l’8,4% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni ha partecipato ad associazioni culturali, ricreative o di altro tipo; e il 9,7% ha svolto attività gratuite in associazioni di volontariato (nel 2014 erano l’8,6%).
Questi i principali dati che emergono dall’introduzione del 9° Rapporto di monitoraggio sull’attuazione della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza nel nostro Paese, realizzato dal Gruppo CRC , che quest’anno viene pubblicato e diffuso in un’occasione speciale: il 25° anniversario dalla ratifica della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, avvenuta il 27 maggio 1991 con la Legge 176/1991.
La politiche per l’adolescenza vivono, tra le altre cose, in un limbo trovandosi anche a cavallo tra quelle dedicate all’infanzia e quelle rivolte ai giovani. Solo per fare un esempio non esistono linee guida sul passaggio dal pediatra di famiglia al medico di medicina generale. Vengono affidate alla “ragionevolezza” di chi si incontra.
“Ragionare sulle politiche per gli adolescenti, considerandole come parte delle politiche rivolte in senso più ampio ai giovani, è importante” – sottolinea Arianna Saulini, di Save the Children e coordinatrice del Gruppo CRC – “anche perché è in corso a livello europeo un tentativo di profondo rinnovamento, che mira a promuovere iniziative che mettano definitivamente da parte la visione dei giovani come problema, riconoscendoli pienamente come risorsa, da rilanciare mediante politiche di empowerment. Occorre, inoltre, investire e progettare per garantire un supporto alle famiglie, rinforzando le competenze genitoriali, così come ben evidenziato nel IV Piano Nazionale d’azione per l’Infanzia di cui sollecitiamo l’ approvazione”.
L’adolescenza è uno dei numerosi focus presenti nel documento, alla cui redazione hanno contribuito 134 operatori delle 91 associazioni del Gruppo CRC. Il Rapporto approfondisce 50 tematiche che ricalcano i raggruppamenti dei diritti della CRC.
La mappatura della situazione individua criticità su più fronti. A partire da quello istituzionale, che vede delle importanti lacune sotto il profilo della governance delle politiche a supporto dell’infanzia e degli adolescenti.
Numerose leggi sono ancora ferme in Parlamento, quali: la riforma del sistema di protezione e accoglienza dei minori stranieri non accompagnati; l’acquisizione della cittadinanza per i minorenni di origine straniera, ancora disciplinata dalla legge del 1992.
Il Gruppo CRC, inoltre, sottolinea la carenza di dati certi, completi fra loro e comparabili in riferimento alle complessa situazione delle persone di minore età fuori dalla famiglia di origine. Dati incerti si hanno anche sui minori adottabili e sulle coppie disponibili ad adottare.
Da 15 anni, infatti, manca una banca dati nazionale. Si è passati dalla stima di 1900 minorenni adottabili, accolti in affido e in comunità perché non adottati da oltre due anni, al dato di 300 minorenni riportato dal Dipartimento di Giustizia Minorile, e infine al dato rilevato dall’ISTAT che evidenzia come nel 2013 fossero in comunità di accoglienza 779 minorenni adottabili.



In ambito sanitario ci sono ancora grandi disparità a livello territoriale, con le regioni del Sud fortemente penalizzate, sia nell’accesso ai servizi che nell’accesso alla prevenzione.
La novità più rilevante, rispetto allo scorso anno, è l’approvazione da parte dell’Osservatorio Nazionale Infanzia” del IV Piano Nazionale d’azione per l’Infanzia (PNI) atteso oramai da diversi anni, che però non è ancora stato pubblicato e approvato in via definitiva.
Ad oggi, la legge di Stabilità e i provvedimenti ad essa collegati si confermano lo strumento principale di intervento, con tutti i limiti che questo comporta in termini di formulazione di strategia ad ampio respiro. In positivo si evidenzia che nell’ultima Legge di stabilità è stato introdotto un Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale che garantisca in via prioritaria interventi per nuclei familiari con figli minori; nonché un Fondo dedicato specificamente al contrasto della povertà educativa minorile.
Il Gruppo CRC sottolinea la necessità di interventi educativi qualificati, che coinvolgano sinergicamente e congiuntamente gli attori del cosiddetto “quadrilatero formativo” (famiglia, scuola, istituzioni, Terzo Settore) e, allo stesso tempo, attivino le risorse dei ragazzi e delle ragazze e ne valorizzino il protagonismo.
“Investire adeguatamente significa permettere agli adolescenti di progettare percorsi di vita, rafforzati da un forte senso di appartenenza e di cittadinanza, e di vivere fuori dalla marginalità, come protagonisti reali – e non virtuali – del tessuto sociale”, conclude Arianna Saulini, “significa riconoscergli il diritto a una formazione continua ed efficace e alla sperimentazione di sé attraverso percorsi scuola-lavoro organizzati. È urgente che si ricominci a parlare dell’adolescenza come di una fase di crescita, di evoluzione e di preparazione all’età adulta”.
Gruppo CRC