Moduli o Stimanze


Nei giorni delle feste, la tavola era sempre apparecchiata. Spesso con le stoffe migliori, magari quelle dei corredi, a sfidare le macchie di vino che soprattutto dal pranzo successivo alla vigilia erano pronte a minacciarne il candore. Qualcosa era fisso in tavola: panettone (spesso selvaggiamente sbranato dai ragazzini di passaggio), qualche torrone e frutta secca, ma soprattutto mandarini. L’ultimo baluardo di madri già preoccupate della dieta natalizia dei figli.
Non poco e forse il meglio di pranzi e cene delle Feste arrivava da lontano. Fichi a crocetta, disposti aperti a due a due, ad abbracciarsi nel sapore della scorza di arancia e della mandorla, secondo un uso forse bizantino. Le trizze, fichi secchi infilati nello stecco di canna, alternati l’uno e l’altro e separati da foglie di alloro. Il paddruni, una palla di foglie di fico legata colla rafia, al cui interno insaporivano piccoli fichi cotti, grassa uva passita e aromi di ogni tipo.
Ancora, le sopressate, portate di malavoglia sulla tavola dagli anziani che sostenevano fosse un delitto aprirle a Natale: troppo fresche, il loro tempo era la Pasqua.
Il problema, però, è che “andavano” avviate. Perché non gustare la stimanza sarebbe stata una mancanza di cortesia per i parenti calabresi che l’avevano inviata. Stimanza: questo è il nome del dono fatto in segno di rispetto a chi aveva lasciato la terra molti anni prima.
La stessa stimanza ritrovata più volte sulla tavola di un amico medico in un grande ospedale milanese. Molto più varia ma sempre dal Sud: cassata, ninnata, caciocavallo. La riconoscenza nasce a mezzogiorno. Stima di pazienti, rispetto di familiari di malati le cui storie duravano ben oltre il tempo delle cene con cui queste prelibatezze erano condivise. Il signore di Castelvetrano con la cirrosi, puntuale nei controlli periodici. Quello che si chiamava Piovi, da Pio Sesto, soltanto male interpretato. L’anziano di Tricarico con scompenso in agguato e làgane. Questi odori e sapori erano il modo per far entrare nelle case del medico i vissuti e le sofferenze di persone altrimenti ignorate.
Il mezzo per riscattarle, sebbene temporaneamente, dalla loro condanna all’invisibilità.



Stimanze oggi in via d’estinzione, per lo meno in ospedale. Rischio di corruzione. Il medico che riceverà un regalo dovrà valutarne il valore ma in termini di costo: maggiore o inferiore a 150 euro. In questo caso, dovrebbe restituirlo. Questo prescrive la normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza.
Forse non “da quando mondo è mondo”, ma almeno dalla pubblicazione del “Saggio sul dono” di Marcel Mauss (1924), sappiamo che scambiarsi qualcosa è alla base delle relazioni umane. È un valore universale, quello della condivisione. D’accordo: presuppone la reciprocità, ma è permeato di libertà. Né chi fa il regalo, né chi lo riceve è in dovere di donare.
Strani anni, quelli che viviamo. Riusciamo a trasformare uno dei pochi atti di umanità possibili in una corsia di ospedale in qualcosa da sanzionare. Sappiamo che il servizio sanitario soffre soprattutto tre problemi: l’eccesso di burocrazia, la mancanza di tempo di medici e infermieri, l’inadeguata relazione tra il malato e il curante. In un colpo solo si riesce a fare terno.
Con qualche altra idea brillante, anche la tombola sarà a portata di mano.
Ldf
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