Chi difenderà la FDA da Trump?

Una parte importante della campagna elettorale del nuovo presidente USA è stata fondata sulla promessa di ridurre al minimo indispensabile la burocrazia dello stato federale. L’idea di fondo è che tutto ciò possa incentivare gli investimenti e accelerare la velocità di accesso dell’innovazione sul mercato. Questo scenario non poteva ovviamente tenere escluso il lavoro fatto dalla Food and Drug Administration (FDA) le cui procedure vengono spesso viste come un inutile ostacolo a terapie che altrimenti sarebbero disponibili ai pazienti in tempi ridotti. Il riequilibrio degli standard richiesti dalla FDA dovrebbe avere un impatto soprattutto sugli investimenti in studi clinici ritenuti fino ad oggi necessari per ottenere l’autorizzazione alla commercializzazione.
Facciamo un esempio pratico di come dovrebbe cambiare il paradigma: piuttosto che aspettare che un medicinale mostri a lungo termine una riduzione reale del rischio di una patologia o addirittura della mortalità ad essa associata, per l’approvazione dei nuovi farmaci potrebbero bastare esiti secondari o surrogati (biomarker) associati agli stessi rischi o eventi fatali. In passato, in effetti, questo approccio è stato utile per approvare alcuni medicinali anche importanti come ad esempio le statine. Queste ultime avrebbero dovuto aspettare diversi anni dopo la dimostrazione del loro effetto sui livelli di ipercolesterolemia prima di veder confermata la loro effettiva capacità di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari. Purtroppo però sono molto maggiori i casi in cui l’effetto sull’esito surrogato non è stato accompagnato da altrettante conferme in termini di salute e guadagno in anni di vita. L’area cardiovascolare, delle demenze, il diabete, l’oncologia sono aree terapeutiche ricche di esempi fallimentari in tal senso. A ciò si aggiunge la sempre più frequente pratica di accettare per l’approvazione studi di fasi precoci (Fase II), soprattutto nell’area oncologica, e che vengono terminati precocemente.
Tutto questo però è noto agli addetti ai lavori. La novità è che a mettere in guardia dai rischi legati a questo nuovo approccio oggi non sia il solito farmacologo o metodologo menagramo ma, su una rivista prestigiosa come Science, l’editoriale1 di un esponente globalmente riconosciuto nel mondo di Big Pharma come John LaMattina (former president di Pfizer Global Research and development). È proprio lui che dettaglia gli esempi sopra riportati per richiamare la nuova amministrazione sulla necessità di doversi affidare a studi clinici a lungo tempo per non correre il rischio di mettere in circolazione molecole e terapie dannose e poco sicure.
In realtà non deve stupire che sia proprio Big Pharma a prendere le difese della più famosa authority mondiale del farmaco. Chi fino a ieri si è impegnato con investimenti importanti per studi lunghi e costosi ma capaci di rispondere ai quesiti regolatori e agli standard fino ad oggi utilizzati, non ha nessuna intenzione di farsi superare o anche solo affiancare da chi ha fatto solo metà del suo sforzo.
In ogni caso il ragionamento finale di LaMattina va preso nella sua interezza quando riconosce nell’attività regolatoria della FDA una salvaguardia non solo dei suoi investimenti ma anche della buona pratica clinica; un suo ridimensionamento porterebbe ad una perdita per tutti gli attori coinvolti nel settore farmaceutico, pubblici e privati.
Purtroppo la minaccia di un vero stravolgimento degli standard di valutazione dei nuovi farmaci è resa ancora più concreta dalla drammatica riduzione del budget disponibile per la ricerca pubblica al Dipartimento di Salute e del National Institute of Health (-18%) proposto al Congresso USA dallo stesso Trump. Insomma, ben venga la difesa della FDA da parte di tutti coloro che sono ancora interessati all’introduzione di nuovi medicinali sulla base delle migliori prove di efficacia e sicurezza possibili.
Antonio Addis
Dipartimento di Epidemiologia,
Regione Lazio
a.addis@deplazio.it

1. LaMattina J.L. Approving new drugs. Science 2017; 355: 777. http://science.sciencemag.org/content/355/6327/777

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