Pillole per curare una sanità influenzata

Si discute dagli anni Settanta del difficile equilibrio tra l’efficacia dei farmaci e la necessità commerciale della loro promozione, dei dubbi sulle relazioni insidiose tra chi prescrive e chi produce. Se ne discute da troppo tempo per credere che le dinamiche siano rimaste allo stesso punto nel quale furono fotografate dalle riflessioni di Albano Del Favero o Manlio Spadoni. “Il problema dei farmaci” è sempre più attuale ma come i medicinali di oggi sono diversi da quelli di quaranta anni fa, anche i determinanti del loro successo sono molto cambiati.
Nonostante il grande equilibrio dei due autori di “Pillole. Storie di farmaci, medici, industrie”, Big Pharma non è “un termine in sé neutro”: al contrario, è un’espressione che lascia trasparire il desiderio di una presa di distanza dalle storie che ascoltiamo e leggiamo da molti anni. Storie che raccontano di principi attivi nati dal lavoro di centri universitari, sviluppati da start-up messe in piedi da ricercatori pubblici, poi acquisite da multinazionali attratte dalla possibilità di trasformare un investimento di 11,2 miliardi di dollari in un ricavo di 32 miliardi di dollari – dunque quasi il triplo della spesa – a distanza di soli 5 anni (2011-2016). Un capitalismo che da produttivo è diventato finanziario, con tutte le conseguenze in termini di calo di occupazione e di vigilanza etica sulle dinamiche imprenditoriali.
Storie che raccontano di farmaci che per il solo fatto di essere nuovi sono presentati di per sé come “innovativi” e risolutivi per la salute di persone sofferenti di malattie molto gravi, ancora prive di una speranza di cura. Raccontano anche di industrie che pianificano strategie di vendita dei propri prodotti basate sull’enfasi della diffusione di alcune malattie o sulla trasformazione di problemi trascurabili in patologie da curare. Nascono “epidemie” di ogni genere e spuntano malati di timidezza, calvizie e insoddisfazione sessuale.
Raccontano, queste storie, di società scientifiche incapaci di realizzare attività formativa contando sulle quote dei propri soci, ma molto efficienti nell’organizzare congressi dove uno spazio espositivo per la durata di tre giorno è venduto a 120 mila euro e un simposio satellite di mezz’ora è messo all’asta a 50 mila euro. Raccontano anche di associazioni di pazienti che, pur potendo contare solo su pochi iscritti, siedono in tavoli decisionali (potrebbe essere una buona cosa) ma sono per questo corteggiate e finanziate da industrie che sfruttano la loro capacità di advocacy ma non dichiarano la provenienza del denaro percepito.
Storie che raccontano di un marketing che si rinnova costantemente, che sostituisce migliaia di informatori scientifici del farmaco (solo in Italia li chiamiamo così, pagina 83) con una pubblicità online quasi sempre poco trasparente, con le notizie diffuse nelle tante newsletter ricevute dal medico, nei banner promozionali inseriti nei programmi di gestione delle cartelle cliniche informatizzate e, soprattutto, negli eventi “formativi” accreditati dal programma ministeriale di educazione continua in medicina. Raccontano dunque di una medicina accademica che sembra aver definitivamente abdicato al proprio ruolo scientifico e culturale, apertamente condizionato da un’influenza che non solo ha un impatto forte sui risultati della ricerca e sulla loro disseminazione, ma incide in modo determinante sulla definizione stessa dell’oggetto di studio e sul suo indirizzo.
Le pagine scritte da Guido Giustetto e Sara Strippoli lasciano qualche dato di conoscenza in più rispetto ai numerosi contributi che l’hanno preceduto ma soprattutto affidano al lettore delle domande ancora senza risposta.



Quali correttivi possono essere messi in atto per riorientare la sanità e la pratica clinica? Quanti medici, farmacisti, dirigenti sanitari provano disagio lavorando in un contesto così condizionato? Quanta parte del personale sanitario è consapevole della situazione descritta? Quanti ritengono che questi problemi riguardino solo i colleghi?
I codici etici – da quello della Federazione degli ordini dei medici, dei chirurghi e degli odontoiatri a quello di Farmindustria – servono? Esistono studi che ne abbiano valutato l’efficacia? Perché non si è ancora pensato di pianificarli e condurli? Azioni per aumentare la trasparenza – simili all’Open payment database del Sunshine act statunitense – sarebbero augurabili e potrebbero essere sviluppate anche in Italia?
Nei contesti in cui gli ordini dei medici o le aziende sanitarie non garantiscono formazione indipendente, come si fa a scoraggiare il medico a partecipare a quella sponsorizzata? Se l’Agenzia Italiana del Farmaco o il Ministero della salute non offrono più strumenti come il Bollettino di informazione sui farmaci o Clinical evidence, né l’accesso a banche dati bibliografiche o a fonti primarie o secondarie, si possono biasimare i clinici che accettano il servizio di document delivery offerto dalle industrie o il dono di testi di aggiornamento?
Ha senso lavorare per prevenire o sanzionare il comportamento del singolo professionista senza che esistano strategie di sistema, che prevengano alla base le “sinergie” pericolose tra istituzioni e aziende, tra la Politica e l’industria?
Luca De Fiore
luca.defiore@pensiero.it