Terapia genetica e sostenibilità: programmare
un cambio di paradigma

La terapia genetica è una tecnologia medica che si avvale direttamente come principio attivo del DNA, il quale agisce attraverso l’espressione, temporanea o definitiva, di materiale genetico all’interno di una popolazione cellulare. Il cambiamento dell’espressione genetica rappresenta così un nuovo approccio per prevenire, trattare o curare una malattia. Lo sviluppo di terapie genetiche è in corso da almeno due decenni. La ricerca italiana svolge un ruolo da protagonista a cominciare da Glybera™ (alipogene tiparvotec), che, dopo una travagliata valutazione di rischio-beneficio, è stato il primo prodotto approvato dalla European Medicines Agency (EMA) nel 2012 per il trattamento della deficienza di lipoprotein-lipasi. Da allora è stato somministrato a un solo paziente ed è stato ritirato nel 2017 per “mancanza di mercato”. Anche la seconda terapia genetica in commercio è stata sviluppata in Italia: Strimvelis™, indicata nella immunodeficienza grave combinata da deficit di adenosina deaminasi (ADA-SCID)1, una malattia ultra-rara che colpisce 15 pazienti all’anno in Europa e 350 nel mondo.
A dicembre 2017 la FDA ha approvato Luxturna™ (voretigene neparvovec) per il trattamento della retinite pigmentosa. A gennaio 2018, la banca dati ClinicalTrials.gov elencava 213 studi attivi e 206 completati. Gli studi di fase II-III erano rispettivamente 112 e 872. Il 70% di questi studi era localizzato negli USA e il 20% in Europa, di cui poco meno di un quinto in Italia (figura 1). È un segnale che la fase pionieristica è ormai superata ed è iniziata la competizione sulle circa 4000 malattie genetiche in attesa una terapia “curativa”. Le indicazioni non si limitano alle malattie ultra-rare ma interessano anche patologie relativamente più comuni come emofilia, anemia falciforme, ipercolesterolemia familiare e degenerazione maculare correlata all’età (AMD). Nei prossimi 5 anni saranno quindi messe a disposizione diverse terapie che possono rappresentare una nuova frontiera della medicina per milioni di pazienti. La promessa è importante: ci si attende che un singolo ( one-off) trattamento sia in grado di curare o apportare benefici clinicamente significativi per malattie oggi prive di terapie o per le quali sono disponibili alternative non abbastanza efficaci o che richiedono una gestione complessa.



La terapia genetica − e per affinità le CAR-T − ha caratteristiche distintive che richiedono di definire un approccio sostanzialmente nuovo per consentirne l’accesso ai pazienti.
Il dibattito attuale si focalizza su tre aspetti, fra loro correlati: quale evidenza di efficacia e tollerabilità; come stabilirne un valore in termini di willingness to pay; e, infine, in che modo affrontare la sostenibilità della spesa3.
Sono diversi e difficilmente categorizzabili i fattori che rendono complesso ottenere evidenze a sostegno della efficacia e tollerabilità a lungo termine, indispensabili per dimostrare che davvero una singola somministrazione sia in grado di curare la malattia e prevenirne le conseguenze. La ridotta numerosità dei pazienti e la prognosi spesso così grave da imporre di intervenire il più precocemente possibile sono due condizioni già sufficienti per prevedere che sarà necessario “accontentarsi”, come già oggi avviene per le malattie orfane, di una bassa qualità delle evidenze, basata su studi clinici non controllati (o con un cross-over precoce) e di durata comunque breve, visto che la tecnologia con vettori virali non è sufficientemente consolidata da permettere di predire la tollerabilità a lungo termine e il mantenimento della risposta. L’attesa di una bassa qualità delle evidenze è ancor più probabile considerando la non disponibilità di misure surrogate di esito che siano clinicamente rilevanti e la relativa mancanza di un confronto con standard d’intervento e supporto condivisi e riconosciuti in ambito internazionale.
È piuttosto probabile che, come sempre, le autorità regolatorie siano orientate in favore di un rapido accesso al mercato, concordando con i produttori criteri surrogati di efficacia e demandando la questione della sicurezza a programmi di monitoraggio.
Quindi la domanda “Come valutare il beneficio clinico incrementale?” ricadrà sui servizi sanitari, pubblici o privati che siano. Come sempre, si potrebbe ripetere. Tuttavia, lo scenario è più complesso. C’è il rischio concreto di sovrastimare il valore della terapia e definire una elevata disponibilità a pagare (willingness to pay), amplificata dalla spinta emotiva (anche veicolata dai media) e dall’attenzione focalizzata su richieste per singoli pazienti. Se è vero che inizialmente l’alto costo della terapia genetica è gestibile per alcune malattie ultra-rare, l’elevata numerosità di tali patologie, il riconoscimento di un alto prezzo di riferimento per ciascuna di esse e la diffusione della terapia genetica in indicazioni relativamente più comuni impone la questione della non sostenibilità della spesa.
Come valutare allora il beneficio clinico incrementale? Ad oggi, la risposta è incerta. Gli economisti sanitari riconoscono che gli attuali schemi non sono specifici e quindi non possono essere trasferiti tout-court alle terapie genetiche. L’incertezza sulle evidenze di tollerabilità ed efficacia indeboliscono la validità di valutazioni economiche di costo-utilità o costo-efficacia riferite a un orizzonte temporale a vita. La profilassi vaccinale potrebbe rappresentare un parziale riferimento sebbene la maggior parte dei vaccini sia somministrata più volte o addirittura annualmente come l’anti-influenzale. Premesso che le malattie genetiche non costituiscono una categoria omogenea ma si distinguono per gravità, età di comparsa, durata, numerosità dei pazienti e impatto sociale, in questo contesto appare indispensabile che i servizi sanitari prendano l’iniziativa per:
a. identificare quali malattie determinano i bisogni più rilevanti, così da indirizzare la R&S;
b. concordare con la comunità scientifica, l’industria e l’autorità regolatoria i criteri minimi indicativi di beneficio clinicamente rilevante;
c. definire una soglia minima di qualità dell’evidenza che privilegi gli studi controllati o i disegni adattativi.
L’incertezza giustifica la preoccupazione sulla sostenibilità, sebbene gli attuali strumenti negoziali possano trovare applicazione anche per le terapie genetiche.
La valutazione di impatto di spesa mantiene la sua valenza se proiettata ad almeno tre anni così da stimare le risorse da allocare e determinare un tetto di sostenibilità della spesa specifica per prodotto e di quella globale nell’ipotesi di istituire un fondo dedicato a queste terapie.
I contratti finanziari di prezzo/volume, che stanno dimostrando la loro efficacia nella terapia della epatite C e nelle immunoterapie oncologiche, dovrebbero essere alla base di ogni accordo di rimborsabilità. Tuttavia, contrariamente a quanto è accaduto per gli antivirali per l’HCV, − per i quali oltre agli accordi finanziari è stato: a) in qualche modo possibile circoscrivere la rimborsabilità ai pazienti a maggior rischio; e b) i differenti principi attivi, singoli o in combinazione, sono stati posti in concorrenza, − ogni terapia genetica ha caratteristiche proprie se non uniche ed è specifica per una ridotta popolazione di pazienti fra i quali non necessariamente sarà possibile identificare profili di rischio prioritari.
Anche i contratti di esito potrebbero risultare efficienti nelle malattie genetiche a patto di applicarli solo laddove sia realmente possibile identificare parametri clinici obiettivi e/o biomarcatori predittivi della patologia. Ad esempio, la rimborsabilità di Strimvelis™ in Italia prevede un accordo di payment-by-results. Secondo la prospettiva del SSN sarebbe preferibile un accordo basato sul riconoscimento dell’efficacia (success fee) esteso per lo meno ai primi cinque anni. In questo scenario dovrebbe essere valutato attentamente il carico amministrativo e i relativi costi che gravano sulle istituzioni per la gestione di questi contratti. Considerando che si tratta di terapie per popolazioni di pazienti ben individuabili che afferiscono a centri specialistici, una gestione centralizzata a livello regionale in base a procedure nazionali comuni si propone come un’alternativa costo-efficiente rispetto alla gestione delegata ai singoli centri.
Questi o altri strumenti classici (quali i tetti di spesa) rischiano però di non essere sufficienti. Prendiamo ad esempio la terapia genetica, già in fase III, per l’emofilia B. La prevalenza in Italia è di circa 850 pazienti e il costo annuo per paziente, in prevalenza farmacologico, è stato stimato in 117mila euro nel 20124,5. Considerando una aspettativa di vita di 70 anni e un tasso di sconto del 3%, una terapia curativa permetterebbe un risparmio complessivo di circa 3,4 milioni di euro per paziente. Un costo unitario di terapia genetica di 700mila euro potrebbe quindi risultare vantaggioso (se davvero in grado di curare la malattia!). Tuttavia, ben difficilmente il SSN potrebbe da un lato sostenere una spesa una tantum di circa 600 milioni di euro per una singola patologia e dall’altro sarebbe non accettabile suddividere la spesa in più anni, di fatto ritardando l’accesso alla cura, come è stato necessario nel già citato caso dell’epatite C.
Questo problema è stato ben compreso e anticipato dai produttori che stanno elaborando modelli basati sulla dilazione di pagamento distribuita su un arco temporale sufficientemente lungo da consentire la sostenibilità della spesa3,6. Lo schema base è semplice: l’acquisto potrebbe essere inizialmente sostenuto da società finanziarie o dagli stessi produttori a cui il servizio sanitario riconoscerebbe un tasso d’interesse. In tutto con la copertura garantita dal governo. Questi modelli comportano un rischio concreto: la crescita dei prezzi e un aumento dei costi per remunerare il finanziamento. Soprattutto, non risolvono il problema ma lo dilazionano nel futuro, rischiando addirittura di esacerbarlo qualora per qualsiasi motivo fosse necessaria una riduzione del fondo sanitario o emergessero nuove esigenze e priorità sanitarie.
In questo contesto di incertezza, non sorprende che la variabile più determinata sia il prezzo, per definizione a cinque zeri. Bocciato, almeno temporaneamente, l’obiettivo del milione di dollari7, sembrerebbe proprio che un riferimento si stia già delineando. Il prezzo di rimborso di Strimvelis™ è di 594mila euro in Italia e in Inghilterra. Luxturna™ sarà commercializzato a 850.000 dollari, ad oggi il prezzo unitario più elevato di un farmaco negli USA. Degni di menzione anche i 400mila dollari necessari per Yescarta™, CAR-T per il linfoma non-Hodgkin lanciato alla fine del 2017 con un bacino annuale di 7500 pazienti. Prezzi americani, si dirà ma è prudente non escludere una sostanziale equiparazione con l’Europa considerando la complessità di queste terapie.
Probabilmente è proprio il prezzo il fattore chiave da mettere in discussione per togliere l’esclusività della proposta ai produttori. Già in occasione del caso sofosbuvir da più parti era stato chiesto di rendere pubblici i costi di R&S e di commercializzazione per meglio distinguere fra sostegno all’innovazione e soddisfazione degli azionisti. Il richiamo alle aziende farmaceutiche di rispettare i propri obblighi etici trova maggior ragione per le terapie genetiche8,9.
Ciò premesso, l’attuale paradigma, − il prezzo è stabilito dall’azienda farmaceutica in base a una lecita logica di ritorno degli investimenti e il servizio sanitario interviene successivamente per negoziare le migliori condizioni di accesso, − si applica passivamente anche alla terapia genetica? Oppure è necessario modificarlo così da consentire ai servizi sanitari, i cosiddetti payer, di fissare alcuni criteri base di formazione di un prezzo sì remunerativo ma anche sostenibile e, di conseguenza, equo secondo la prospettiva della società?
Una questione molto complessa che richiede un approfondito dibattito sulle implicazioni economiche e sociali. Se da una parte è necessario promuovere il ruolo dei produttori nella R&S, dall’altra, secondo una prospettiva di salute pubblica, è lecito proporre che il servizio sanitario stabilisca una soglia massima di prezzo per una selezione di malattie genetiche che costituiscono un bisogno sanitario rilevante. Oppure il payer fissi una correlazione fra prezzo massimo di rimborso, impatto di spesa e rilevanza del beneficio clinico.
Considerando la transnazionalità della questione, il dibattito sull’accesso sostenibile della terapia genetica trova collocazione in ambito europeo e può rappresentare l’occasione per giungere alla definizione di un prezzo europeo così da ottimizzare la propria capacità negoziale con l’obiettivo di creare le necessarie condizioni di sostenibilità della spesa e di rapidità di accesso, con vantaggi diretti anche per le aziende farmaceutiche.
In conclusione, la terapia genetica si presenta come un importante progresso medico. La sostenibilità della spesa è un fattore critico per renderla utilizzabile. I servizi sanitari devono assumere un atteggiamento proattivo per fissare le priorità dei bisogni secondo la prospettiva della società. È auspicabile quindi un’azione comune, coordinata e condivisa in ambito europeo fra le maggiori agenzie nazionali, per potere raggiungere la massa critica per coinvolgere la comunità scientifica, le industrie farmaceutiche, gli enti regolatori e le istituzioni politiche e pianificare l’accesso delle terapie genetiche. I tempi sono maturi ed è ora di agire.
Gianluigi Casadei
Centro di Economia Sanitaria A. e A. Valenti (CESAV)
IRCCS – Istituto per le Ricerche Farmacologiche
Mario Negri, Milano
gianluigi.casadei@guest.marionegri.it

BIBLIOGRAFIA
1. Cicalese MP, Ferrua F, Castagnaro L, et al. Update on the safety and efficacy of retroviral gene therapy for immunodeficiency due to adenosine deaminase deficiency. Blood 2016; 128: 45-54.
2. ClinicalTrials.gov, https://clinicaltrials.gov/ct2/results/ details?intr=gene+transfer (accesso del 30/1/2018).
3. Hampson G, Towse A, Pearson SD, Dreitlein WB, Henshall C. Gene therapy: evidence, value and affordability in the US health care system. J Comp Eff Res 2018; 7: 15-28.
4. Cavazza M, Kodra Y, Armeni P, et al. Social/economic costs and quality of life in patients with haemophilia in Europe. Eur J Health Econ 2016; 17 (Suppl 1): 53-65.
5. Kodra Y, Cavazza M, Schieppati A, et al. The social burden and quality of life of patients with haemophilia in Italy. Blood Transfus 2014; 12 (Suppl 3): s567-75.
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7. Morrison C. $1-million price tag set for Glybera gene therapy. Nat Biotechnol 2015; 33: 217-8.
8. Bertelé V, Garattini S. Health care: make pharma justify the price of drugs. Nature 2015; 523: 290.
9. Kay J. Drug companies have lost far more their health. FTcom. 2011/8/2.