dalle altre riviste





NUTRACEUTICI: UN DIBATTITO PER IL QUADRO REGOLATORIO

Il termine ‘nutraceutico’ è un neologismo sincretico tra due parole: ‘nutriente’ e ‘farmaceutico’; nel 1995 Stephen DeFelice definì per la prima volta i prodotti nutraceutici come “alimenti o parti di alimenti che forniscono cure mediche o benefici per la salute, compresa la prevenzione e/o il trattamento di una patologia”. Questa definizione sottintende un potenziale utilizzo dei nutraceutici oltre la dieta e prima dei farmaci per prevenire e curare patologie, soprattutto in casi non ancora eleggibili per terapie farmaceutiche convenzionali.
In tale contesto Santini A et al. hanno effettuato una revisione delle evidenze disponibili circa gli aspetti regolatori, di efficacia e sicurezza dei nutraceutici nel mondo. Obiettivo della revisione è stimolare un confronto e un fruttuoso dibattito tra specialisti nel settore.
Nonostante il mercato dei nutraceutici sia fortemente in crescita, i risultati della revisione sottolineano che ad oggi manca una definizione del prodotto univoca, ufficialmente condivisa e accettata in tutto il mondo. Non è attualmente possibile distinguere i nutraceutici da altri prodotti derivanti dagli alimenti. Le prove in vitro risultano esigue e incentrate su singoli micronutrienti; inoltre non sono disponibili trial clinici che evidenziano meccanismi d’azione, aspetti di efficacia e sicurezza che consentirebbero di distinguere i nutraceutici dagli altri prodotti derivati dagli alimenti (es. alimenti funzionali, prebiotici e probiotici, integratori alimentari).
Sarebbe pertanto opportuno effettuare una ristrutturazione del quadro regolatorio riguardante tutti i prodotti usati come supplementi alla dieta, cominciando dalla richiesta ai produttori di dati di sicurezza e efficacia. Sarebbe così possibile definire e distinguere i nutraceutici dagli altri prodotti. (Daria Putignano)
Fonte: Santini A, Cammarata SM, Capone G, et al. Nutraceuticals: opening the debate for a regulatory framework. Br J Clin Pharmacol 2018; 84: 659-72.




UN’INTENSA ATTIVITÀ FISICA NON BASTA A MIGLIORARE LA QUALITÀ DI VITA DI CHI È DETENUTO

Il carcere non è il luogo ideale per combattere le abitudini sedentarie – concludono gli autori di uno studio osservazionale condotto nelle carceri italiane – tuttavia la promozione della salute può essere portata avanti anche in questi luoghi.
Nelle carceri considerate – Eboli (Salerno), Pagliarelli (Palermo), Rebibbia (Roma), Regina Coeli (Roma), San Vittore (Milano) – erano detenute 3600 persone al momento dell’indagine, 636 hanno accettato di partecipare, di queste 400 hanno completato il questionario con risposte utili per l’analisi.
Il questionario comprendeva una sezione sull’attività fisica (International Physical Activity Questionnarie), una sulla qualità della vita (Short Form 12 questionnaire), infine una sezione con variabili socio-demografiche tra cui età, genere, nazionalità, stato civile, numero di figli, livello educativo, anni di detenzione, abitudine al fumo, peso, indice di massa corporea.  
“Le componenti fisiche e mentali della scala di qualità della vita” commentano gli autori “sono associate all’attività fisica, in particolare se intensa. La natura dello studio non permette però di stabilire un nesso causale”. Non è chiaro quindi se un’intensa attività migliora la qualità della vita, o se una migliore qualità della vita percepita porta a fare più attività fisica. “È però probabile che investire in aree per l’attività fisica” molto variabili in termini di spazio nelle carceri, a volte neanche presenti “possa migliorare le condizioni di salute di chi è detenuto, con le debite precauzioni e considerando la variabilità dei casi” concludono gli autori. (Cinzia Colombo)
Fonte: Mannocci A, Mipatrini D, D’Egidio V, et al. Health related quality of life and physical activity in prison: a multicenter observational study in Italy. Eur J Public Health 2017; 28: 570-6.




GLI ADOLESCENTI A ELEVATO RISCHIO DI PSICOSI NEI SERVIZI ITALIANI

Il lavoro è stato sviluppato nell’ambito del progetto “Reggio-Emilia At-Risk Mental States” (ReARMS), parte del più ampio “Progetto Esordi Psicotici della Regione Emilia-Romagna”, tutte le Unità Operative di NPI del Dipartimento di Salute Mentale di Reggio-Emilia.
Tra settembre 2012 e dicembre 2015 sono stati raccolti dati relativi a 79 adolescenti di età compresa tra 13 e 18 anni con segni o sintomi suggestivi per un primo episodio psicotico (FEP) oppure per uno stato detto “Ultra-High Risk” (UHR) per psicosi. È stato applicato il protocollo di valutazione ReARMS, comprensivo di strumenti quali: CAARMS, intervista clinica semistrutturata che valuta diversi aspetti della psicopatologia attenuata e il funzionamento del paziente, utilizzata in particolare per definire i criteri UHR (APS, sintomi psicotici attenuati; BLIPS, sintomi psicotici brevi intermittenti e limitati; GRD, sindrome da rischio genetico e deterioramento funzionale); PANSS, scala utilizzata per valutare la severità della sintomatologia psicotica; SPI-CY, versione italiana, utilizzata per valutare i criteri BS, “Sintomi Base”, (COGDIS e COPER, che comprendono sintomi cognitivi o percettivi). Ad oggi UHR e BS sono i criteri complementari utilizzati per l’individuazione degli stati a rischio psicotico, sebbene necessitino di validazione negli adolescenti.
Il lavoro si è posto l’obiettivo di valutare la rilevanza clinica di una diagnosi UHR ed è il primo in Italia ad aver esaminato la validità predittiva dei criteri UHR in relazione ai criteri BS in una popolazione di adolescenti.
Infatti, i sottogruppi di popolazione individuati (UHR +, UHR – e FEP) sono stati prima di tutto analizzati in base a caratteristiche demografiche, cliniche e psicopatologiche, con differenze significative nei punteggi delle sottoscale “sintomi negativi” e “psicopatologia generale” della PANSS (FEP e URH + punteggi maggiori di URH -), in linea con quanto osservato in letteratura, per cui i sintomi negativi sono considerati i principali marker della fase prodromica in adolescenza. Inoltre sono state osservate differenze significative nelle sottoscale della CAARMS che indagano l’esperienza soggettiva di “alterazioni cognitive” e “disturbi emozionali” (UHR + > UHR -), dato che potrebbe essere indicativo della sensibilità di queste due sottoscale nel segnalare il rischio imminente di psicosi. È stato studiato anche il tasso di transizione alla fase di psicosi conclamata dopo 12 mesi di follow-up, che nei pazienti UHR + è risultato essere il 10%.
All’interno di questi sottogruppi è stata successivamente individuata la presenza di criteri BS: i gruppi FEP e UHR + avevano maggiore probabilità di soddisfare i criteri COGDIS e COPER rispetto al gruppo UHR -, e presentavano una maggior gravità dei sintomi relativi a pensiero e percezione. I criteri BS correlavano significativamente con quelli UHR. Il tasso di transizione alla psicosi conclamata è stato del 7,7% nei pazienti COGDIS + e del 6,1% nei COPER.
Questi risultati, seppure con le limitazioni che gli autori esplicitano, suggeriscono che la valutazione combinata dei sintomi BS con quelli UHR potrebbe incrementare il loro valore predittivo nell’individuare pazienti che svilupperanno psicosi, ipotesi che dovrebbe essere avvalorata da ulteriori ricerche. (Erica Maselli)
Fonte: Pelizza L, Azzali S, Paterlini F, et al. Adolescents at ultra high risk of psychosis in Italian neuropsychiatry services: prevalence, psychopathology and transition rate. Eur Child Adolesc Psychiatry 2018; 27: 725-37.