Stadium pod


Ai primi di febbraio un signore statunitense – Rick Pescovitz – si è accomodato al proprio posto in aereo “dentro” una strana roba da lui stesso inventata, brevettata e prodotta da qualche tempo in serie, con trascurabile successo commerciale: lo Stadium pod, della famiglia degli Under the weather pods. Si tratta di una specie di scafandro di plastica trasparente concepito per assistere a eventi sportivi o pescare a bordo fiume sotto la pioggia o la neve senza bagnarsi. Una cosa di una scomodità rara. E, infatti, i commenti che si leggono in rete lasciano supporre che il signor Pescovitz abbia ancora i magazzini pieni della propria invenzione.
Ma se evitare di assistere alla partita di calcio del figlio senza fradiciarsi avrebbe senso, che utilità può avere presentarsi al gate di un aeroporto inseriti in un gigante preservativo di plastica spessa? Ma che domande: siamo o non siamo ai tempi del coronavirus?
Intendiamoci: quando leggerete queste righe potrebbe essersi già verificata la catastrofe annunciata da qualcuno sugli inserti speciali dei quotidiani e nei blog di esperti, trasformati ormai in impareggiabili profeti di sventura. In un clima di incertezza, proviamo a recuperare una distanza di sicurezza dal virus e dal maxi preservativo dell’americano.



“Nessuno è immune da rischi nel mondo, non più”, scriveva Zygmunt Bauman qualche anno fa1. E aggiungeva: “Ma perché ‘non più‘? In fin dei conti, la precarietà dell’esistenza umana non è un fatto nuovo. Da quando gli esseri umani, in quanto membri di una specie vivente tra innumerevoli altre, hanno acquisito la capacità di dare espressione al pensiero, certe questioni spinose hanno reso tale precarietà evidente agli occhi delle creature dotate di linguaggio; e in quanto evidente, anche temuta.” La scoperta definitiva e destabilizzante è quella della mortalità. Dell’inevitabile e inaccettabile mortalità. Inaccettabile ai giorni nostri perché cozza contro la narrazione di una medicina onnipotente, di fronte alla quale “si profila la visione di una vita che finisce soltanto perché l’Io trascura il proprio dovere.” Di fronte all’ingovernabile certezza della propria finitezza, si riduce l’ansia in una serie di frammenti ben più maneggevoli, che possiamo “risolvere” da artigiani della sopravvivenza.
Piccole visibili paure: il colesterolo, la bilancia, il fumo, quel bicchiere di vino...
Ma cosa fare se il nemico è invisibile? “Isolarsi, chiudersi dentro, nascondersi: oggi sono questi i modi comuni di reagire alla paura delle cose che accadono”2. Ora è il tempo della “paura costruita su misura” e ancora di più di innumerevoli e fantasiosi modi di rispondere all’ansia che deriva dalla precarietà, dall’insicurezza e dall’incertezza1. La fotografia del signor Pescovitz in aereo – scattata da una hostess compiacente – circolava contemporaneamente ai video dei cittadini cinesi legati e costretti a forza in quarantena: alla sfiducia – o quantomeno allo scetticismo – nei confronti delle politiche sanitarie di comunità corrispondono “soluzioni” individuali, un fai-da-te all’estrema conseguenza.
Anche a costo di apparir ridicoli. Che poi alla fine che cosa vuoi che importi far la figura del ciuccio in aeroplano: l’importante è far pubblicità a quelle strane cose, ancora tutte in magazzino.
Ldf
luca.defiore@pensiero.it

1. Bauman Z. La solitudine del cittadino globale. Milano: Feltrinelli, 1999.
2. Hizler R. Cit. in: Beck U. Democracy without enemies. Cambridge: Polity Press, 1998.