La fotografia aumentativa e alternativa

La fotografia è un mezzo di comunicazione. È uno strumento particolare, come la sua forma dinamica (il cinema). Semplice nella sua essenzialità, complessa per i potenziali impatti e sequele. Il legame tra il fotografo, l’osservatore e l’osservato/ritratto fa della fotografia una forma di vita, di relazioni, di contesti e di linguaggi. Ogni fotografia è unica perché può raccontare ad ogni osservatore una diversa storia, una sensazione, un sentimento. È questo che la rende così importante. La fotografia è vita perché insieme di sensazioni, storie e sentimenti.
È… testimonianza, come questa rubrica. Il contributo inviatoci da Elisa ci fa riflettere sulla fotografia come strumento di comunicazione che aumenta il linguaggio, non solo quello verbale per compensare quelle disabilità che seppur in forma varia e di varia gravità sono patrimonio di ognuno.
R&P è sempre stata attenta, e curiosa, di comunicazione aumentativa e alternativa (CAA) non solo in quell’area della pratica clinica che cerca di compensare la disabilità temporanea o permanente di individui con bisogni comunicativi complessi attraverso l’uso di componenti comunicativi speciali1. Quindi un intervento di comunicazione2, non una tecnica, proprio come la fotografia e il suo uso raccontato in questa testimonianza. Costruire libri e storie con la CAA3 è un intervento efficace per l’inclusione, non solo del disabile. Le esperienze sono tante, come tanti e vari sono i prodotti (IN-book) che raccontano favole classiche, avvenimenti storici, preghiere, che costruiscono “passaporti”. A conferma che “si può fare” anche con la fotografia, e a sostegno che “con semplicità e immediatezza ci sono linguaggi e modi di raccontare che possono rendere accessibili a tutti anche i contenuti più complessi” (Antonella Costantino): la ragione di questa testimonianza.
Maurizio Bonati

1. Costantino A, Bergamaschi N. L’intervento di comunicazione aumentativa in età evolutiva. Ricerca&Pratica 2005; 123:105-10.
2. Costantino A, Bonati M. A scoping review of interventions to supplement spoken communication or children with limited speech or language skills. PLoS One 2014; 9: e90744.
3. Costantino MA, a cura di. Costruire libri e storie con la CAA. Trento: Editori Erickson, 2011.

La fotografia è un mezzo per guardare, per farsi guardare, per guardarsi. Fuori, ma anche dentro. Lo è per il fotografo tanto quanto per chi viene fotografato, ma anche per il lettore. Scegliere una inquadratura, un soggetto, una situazione, un punto di vista per il primo, scegliere una posizione in una foto di gruppo, assumere una posa più o meno naturale, sorridere, guardare in camera, non voler essere fotografati per il secondo; apprezzare una foto, scartarla, emozionarsi per un’altra, ritrarsi di fronte ad un’altra ancora per il terzo. Sono tutte espressioni del nostro Io, più o meno profondo, di cui più o meno abbiamo coscienza. In una stessa immagine leggeranno cose diverse non solo persone diverse, ma anche la stessa persona in stati d’animo, condizioni diverse. L’ho intuito riguardando a casa i miei ritratti di strada di persone che mi raccontano la propria vita. L’ho poi provato con le foto di Ettore, il mio cane. Foto nelle quali mentre scattavo vedevo gioia e bellezza e che stampate dopo la sua morte hanno urlato tutto il dolore che contenevano. Me lo ha razionalmente argomentato Judy Weiser 1. Fotografare in fondo è una coniugazione del verbo vivere.
Io vivo con la macchina fotografica al mio fianco e così ho incontrato Carlo. “Carlo è autistico, grave”. Così lo ha descritto la madre con in braccio il fratellino piccolo mentre tentava di placarne la crisi di rabbia e di disperazione (ai miei occhi non allenati). Così la mia prima esperienza con i disturbi dello spettro autistico mi ha avvolto in un tutt’uno di urla, tensioni muscolari e sudore. Senza sapere come né perché ho iniziato a dondolare lentamente, a sussurrare alla ricerca di un contatto, che è arrivato insieme ai brividi. Carlo si è abbandonato su di me, i muscoli si sono stesi, il respiro è diventato più regolare. Parlavamo, non so quale lingua ma parlavamo. Carlo “è autistico grave”, ma quando, dopo interminabili minuti in cui nessuno di noi due voleva interrompere quella connessione, gli ho chiesto di guardare in camera per un selfie lo ha fatto. Chissà.
La pubblicazione della foto e della storia del mio incontro con Carlo su un social mi ha messo in contatto con Alessia, psicoterapeuta e mamma di Enea, affetto da disturbi dello spettro autistico. Alessia mi ha invitata a continuare a parlare di autismo, il cui universo è poco conosciuto. Ho incontrato Enea. Io non conosco oggi né tanto meno allora il mondo dei disturbi dello spettro autistico. Non mi voleva all’inizio, ha mostrato insofferenza. Disturbavo i suoi schemi rassicuranti. Perché il nuovo può far paura. A tutti. Ma c’era Alessia, che sa come fare, mi ha guidata. Enea mi ha ignorata per tutta la mattina. Pazientemente ho aspettato, senza nessuna aspettativa. Mi sentivo intrusa nel suo mondo. Osservavo quasi furtivamente un mondo non mio. Ho notato le tesserine del PECS 2 di cui è disseminata la casa, non le conoscevo. Pian piano Enea si è abituato alla mia presenza. Attraverso la sua corazza di silenzio, che lascia superare solo se sente la volontà profonda di contatto, mi ha studiata. E allora mi ha sorriso, svelando delle splendide, adorabili fossette, protetto dalle braccia della mamma. Silenzioso contatto profondo, di nuovo. Poi immobili, insieme, in silenzio, un silenzio pieno di noi, a guardare un trattore, enorme, per lunghi minuti. Non gli ho chiesto un bacio, gli ho però detto che mi sarebbe piaciuto. Enea non bacia tutti. Mi aveva ascoltata. Mi ha baciata prima che lo lasciassi. Chissà.
Ho iniziato a leggere3. È diventata una nuova prospettiva. Un mondo nuovo e non completamente conosciuto che come tale ha il potere di affascinarmi, di cui non vedevo i lati drammatici. La voglia di tentare di parlare, a modo mio, di autismo è diventata una urgenza. Ma non è così semplice, almeno per me. Sto ancora cercando.
Nell’ultimo mese di vita di Ettore mi sono autosomministrata della fototerapia fotografando ogni suo istante. Ne è uscita una sequenza fotografica (www.elisamariotti.com/per-amore-solo-per-amore). Se ne è innamorato Niccolò, un socio del club fotografico che frequento, che l’ha mostrata a casa, alla sorella, Angelica, educatrice socio-pedagogica presso la Casa-Thevenin di Arezzo. Di qui è iniziata la avventura presso la casa-famiglia. Angelica, dotata di spiccato entusiasmo e amore per la propria professione, mi ha proposto di portare la storia di Ettore dentro la struttura.
Stavo deviando dal mio obiettivo, l’autismo, ma non potevo tirarmi indietro.
“La Fondazione Thevenin è al centro di una piccola rete di servizi poiché ne gestisce direttamente tre differenti tipologie: la comunità di accoglienza per mamme con bambini (Miryam), la comunità educativa per minori adolescenti con annesso il servizio pomeridiano per bambini in difficoltà scolastica o familiare (Edelweiss), l’appartamento per donne in situazione di disagio (Shalom). Si tratta in ogni caso di persone inviate a noi dai Servizi sociali dei Comuni. La Casa ha lo scopo di provvedere, anche gratuitamente secondo i propri mezzi, alla loro accoglienza, al mantenimento, all’istruzione morale e religiosa, all’inserimento nella società e nel mondo del lavoro” (www.casathevenin.org/).
I ragazzi ospiti di casa-Thevenin hanno situazioni familiari e affettive complesse, in alcuni casi ne è sospesa o revocata la potestà genitoriale. Non per forza in una relazione di causa-effetto con quanto appena affermato, si presentano casi di disturbi comportamentali più o meno definiti, che spaziano dalla continua ricerca di contatto umano, alla irrequietezza, fino alla iperattività formalizzata in una diagnosi.



Nella progettazione degli incontri ben presto ha preso corpo l’idea di un laboratorio fotografico attraverso il quale i partecipanti potessero avvicinarsi al linguaggio fotografico e apprezzarne le potenzialità come mezzo di comunicazione. Un mezzo attraverso il quale potenzialmente è anche possibile far emergere l’interiorità di un individuo. Ho avuto paura all’inizio. Conscia della mia inadeguatezza ho chiesto la con-presenza di personale specializzato, memore della potenza delle immagini nel far emergere dati archiviati in angoli remoti e poco, se non affatto, conosciuti. Il laboratorio avrebbe avuto come scopo quello di far costruire ai ragazzi un proprio libro fotografico, nel quale unire il racconto fotografico di parole alle immagini che loro stessi avrebbero scelto tra un insieme messo loro a disposizione. Le immagini sarebbero state stampate già nel formato finale del libro, che avrebbero rilegato loro con il mio aiuto, usando una tecnica di giapponese, la stessa che avevo usato per la fanzine della sequenza di Ettore.
L’idea si è sviluppata in quattro incontri, pensati per durare circa 45-60 minuti, in modo da evitare stanchezza nei partecipanti e conseguenti cali di attenzione, considerando anche il fatto che l’attività che stavamo progettando doveva mantenere il carattere ludico. Gli incontri avrebbero dovuto essere settimanali, in modo da dare continuità ed evitare allontanamenti. Sono stati individuati i partecipanti: 5 ragazzi tra gli 8 e i 13 anni. Il primo incontro prevedeva, oltre la reciproca presentazione, quella del progetto, portando ad esempio del risultato atteso la fanzine della sequenza di Ettore. Nella seconda parte dell’incontro ho raccontato la storia di Ettore attraverso la sequenza fotografica. Le foto della sequenza stampate in formato simil A4, montate su un supporto a cassettone, sono state disposte a terra in modo che i ragazzi vi si potessero muovere intorno. Lo scopo era quello di far vedere come, attraverso le foto, si possano esprimere stati d’animo e raccontare storie come con le parole, cercando, per quanto possibile di individuare similitudini e differenze tra i due linguaggi. Si sono subito delineati i caratteri.
Daniele ha iniziato a fare verticali, senza che questo gli precludesse di seguire il racconto. Alberto è stato gentilissimo e pacato, aiutandomi con le foto. Pamela in disparte ma attenta. Alessia presente e affilata. Stefano apparentemente non molto coinvolto, come se volesse essere altrove. È stato interessante chiedere ai ragazzi quali foto prediligessero e quali no e soprattutto il perché. Erano tutti impazienti di sapere come sarebbe finita la storia.
Ho distribuito ad ognuno un sacchettino contenente circa 100 foto e una penna accattivante: il laboratorio è entrato nel vivo. Tutti i sacchetti contenevano le stesse fotografie, scelte da me e Angelica tra i miei scatti. Avevamo scelto foto semplici, di facile lettura ma anche contraddittorie, evocative, che potessero innescare la fantasia e le emozioni, farle affiorare. Ci sono state immagini scelte da tutti, altre interpretate in maniera diametralmente opposta: una anziana signora piena di rughe ha fatto paura ad alcuni, tenerezza ad altri. Due ragazzi sono stati interpretati come due pusher da Stefano, come due gay da Alberto e Davide. Alessia mi è salita in collo e ha iniziato a creare una storia complessa; l’ha raggiunta Daniele. Dopo quasi un’ora e mezza non riuscivamo a chiudere l’incontro. Piccolo successo.
Alla fine di ogni incontro il materiale veniva raccolto da Angelica e riposto al sicuro. Questo anche per lasciare spazio alla loro immaginazione durante i giorni in cui non ci vedevamo e concentrare l’attenzione e le energie nel tempo dedicato al lavoro. Ogni incontro prevedeva un elemento di curiosità. All’inizio di ogni incontro raccontavo loro una storia attraverso un numero diverso di foto (oltre quella di Ettore, composta da 12 foto ho mostrato loro racconti di 1, 2, 3 o 5 foto). Storie buffe, semplici, ma di nuovo anche evocative (www.elisamariotti.com/piccole-storie-brevi). Sono sempre stati attratti, tutti dalle immagini stampate. Così si sono avvicinati alla fotografia, a piccoli passi e hanno avuto un saggio di come questo mezzo possa essere potente. Vederli ridere alla lettura di una sequenza di due immagini, rimanere con la bocca aperta nell’ascoltare la storia di un’altra foto è stata una esperienza impagabile.
Le idee sono nate anche in itinere dall’occhio attento di Angelica, come quella di spostare il laboratorio una stanza silenziosa e non attraversata continuamente dagli ospiti. È stato interessante ascoltare le storie create al terzo incontro da ognuno di noi intorno ad una foto scelta tra le 100 distribuite e vedere gli scatti fatti dai ragazzi con la mia macchina fotografica. Ci sono stati degli inaspettati risultati. Daniele, iperattivo, è sorprendentemente placato dal secondo incontro ed è rimasto seduto per anche un’ora e mezza per volta completamente assorbito dalla creazione delle sue storie e dalla costruzione del proprio “librino”. Alberto è arrivato nervoso al quarto e ultimo incontro, ma ha saputo recuperarsi velocemente, attratto dal trapano con il quale dovevamo bucare i fogli per poi rilegarli e, come fa sempre, mi ha ringraziato per averlo coinvolto.
Abbiamo purtroppo, anche se va sempre messo in conto, perso Stefano in itinere. Stefano sta passando un periodo non semplice di una esistenza già di per sé complicata, ma a laboratorio concluso ha espresso la volontà di finire il proprio “librino”.
Quello che più ci ha colpito è stata la profondità dei racconti che sono nati da questa esperienza, tutti diversi tra loro, così come lo sono le personalità dei ragazzi, e allo stesso tempo ognuno pieno di significati e dati da interpretare e su cui riflettere.
Ogni lavoro a modo proprio è risultato essere la cassa di risonanza di sensazioni, paure, fantasie di ognuno dei ragazzi: dalla ricorrente paura di affogare, alla necessità di scappare di casa alla ricerca dei propri desideri, alla analisi delle sensazioni scatenate dalle immagini passando per la storia di un bambino che si sente supereroe perché è stato preso in affido da un signore.
Mentre aspetto la possibilità di poter parlare di autismo, perché le promesse sono fatte per essere mantenute, continuo a frequentare Casa-Thevenin, per dar loro continuità mentre scrivo il progetto per il prossimo laboratorio, un piccolo corso fotografico, nella speranza di poter contribuire alla risposta che Alessia darà alla domanda che ha posto furtivamente ad Angelica su un fogliettino minuscolo durante il laboratorio: “Ma noi siamo fortunati?
No-Forse-Sì”.
Elisa Mariotti
elisamariotti72@gmail.com

NOTE BIBLIOGRAFICHE
1. Fototerapia. Metodologia e applicazioni cliniche. Milano: Franco Angeli, 2013.
2. Sistema di comunicazione mediante scambio per immagini utilizzato nell’ambito della Comunicazione Aumentativa Alternativa.
3. Alcuni riferimenti:
Testi
• Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas Ed. Marcos y Marcos 2012.
• Il cervello autistico di Temple Grandin, Richard Panek, e al. Ed. Adelphi 2014.
• Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Addon Ed. Super ET 2014.
• Baci a tutti di Andrea Antonello Ed. Sperling and Kupper 2015.
• All’ombra della pensilina di Alessandro Muroni Ed. Arkadia 2017.
• Il motivo per cui salto di Naoki Higashida Ed. Sperling & Kupper 2017.
• A.A.A. Alessia – Autismo – Amore di Beatrice Bartolini Ed. Elicon 2018.
Film
• In alto mare (https://diversamenteonlus.org/prodotti-solidali/#cinema).
Fotografia
• Eholilia di Timothy Archibald (www.perugiasocialphotofest.org/en/ timothy-archibald/).
• Gioele. Quaderno del Tempo Libero di Fabio Moscatelli Ed. DerLab 2016.
• Autism di Kate Miller-Wilson (www.flickr.com/photos/7745595@N05/  albums/72157671346825594/with/43661397395/).
• Angels Amongst Us - Children of Autism di Elena Paraskeva.
• (www.moscowfotoawards.com/winners/ moscow/ 2017/3676/).
• Liam’s World di Erin Lefevre (www.spectrumnews.org/opinion/photographer-captures-intimate-scenes-of-daily-life-with-autism/).
• Picturing autism di Debbie Rasiel (https://picturing-autism.com/?page_id=21)
• A Journey into the World of Autism di Eli Meir Kaplan (http://content.time.com/time/ photogallery/0,29307,1911931,00.html).