Vacanza eccezionale

Una vacanza eccezionale quella del 2020? Una vacanza senza soldi.
Una vacanza senza tranquillità. Una vacanza senza serenità. Una vacanza con molti, troppi interrogativi… Una vacanza dettata dagli eventi della pandemia, dalle restrizioni e condizionamenti che ne sono conseguiti.
Vacanze “istituzionalizzate”, protette, confinate… come quelle alle colonie estive, “villaggi turistici” per minori del secolo scorso. Come ci racconta MareBello, il racconto e il servizio fotografico di Simone Caniati, giovane fotografo bolognese. Abbiamo chiesto ad alcuni “vecchi” e “nuovi” amici di R&P di mandarci il racconto della loro vacanza “eccezionale” così da costruire un dossier, alternando le immagini di Simone ai racconti dei partecipanti al gioco. Un percorso tra le immagini, in luoghi “snaturati”… un po’ come questa vacanza 2020. Red.

MareBello racconta le atmosfere di un’estate che non c’è più, un’estate
degli anni ‘60 consumata dal tempo e non dagli anni.
MareBello è l’estate dell’infanzia, quella dei colori più chiari, dei pomeriggi di sole e delle ginocchia sbucciate, dei sogni tutti interi e dei ricordi incisi. MareBello è l’estate raccontata da una bambina di sette anni. MareBello non è un catalogo di ricordi è il racconto di chi sa di essere piccola e invincibile, una bambina che cerca di farci mordere la vita senza sputarne nemmeno il nocciolo.


SIMONE CANIATI
simoca76@gmail.com


Arriviamo al mare dopo una giornata piena di interrogativi.
Quello che so è solo che sarei andata al mare, non so dove, con chi, per quanto tempo e chissà perché la mamma mi ha detto così tante volte di fare la brava e di dare retta.
La corriera si ferma davanti ad una casa grande grande e grigia, ci sono delle signorine con il grembiule e un fischietto al collo. Scendiamo, dalla corriera, sono spaventata e c’è tanto caldo, ho sete. Ho con me un sacchettino con dentro poche cose, 2 canottiere, mutandine, calze, due pantaloncini bianchi, 2 magliette bianche, un maglioncino blu, un costume azzurro, 1 cappellino, un paio di sandali di tela rossa della superga, dentifricio, spazzolino, spazzola per i capelli e poco altro, la mamma mi ha anche dato un sacchettino di caramelle.
La mamma ha messo su le mie cose un numeretto e si è tanto raccomandata di ricordarmelo quel numeretto, e di non perdere niente, chissà perché?
Le signorine con il grembiule ed il fischietto ci mettono in fila e ci dividono in tante squadre e ci fanno entrare dentro a quella casa grande grande e grigia.
Prima di entrare vedo un bastone con la bandiera italiana attaccata, mi colpisce quella bandiera, è l’unica cosa colorata che attira la mia attenzione e ancora non so che sarà, nei giorni futuri uno dei tanti odiati obblighi che mi toccherà rispettare, tutti i giorni.
Tutti in fila in segno di saluto, tutte le mattine davanti a quella bandiera per l’alzabandiera e tutte le sere per l’ammainabandiera.
Noto anche, sul muro a destra della casa due vasche, assomigliano tanto alle vasche dove lo zio nino fa bere le mucche e sopra alle vasche ci sono due rubinetti.
Ancora non so che avrei patito tanto la sete perché le signorine quei rubinetti li terranno sempre chiusi con una chiave e l’unica e poca acqua che potremo bere sarà a tavola a pranzo e a cena.
Entriamo in quella casa, una gradinata ci porta in un salone grande e grigio, il rumore dei nostri passi e le delle nostre voci rimbomba. Ci mettono a sedere per terra con il nostro sacchettino stretto fra le mani. Ci chiedono se conosciamo qualche canzone. Iniziamo a cantare alcune canzoni dello zecchino d’oro.
Aggrotto le ciglia, non mi piace quella casa e non mi piacciono quelle signorine e non mi piace stare lì a sedere per terra, non ho voglia di cantare e non mi piace sentire la paura delle bambine che mi stanno attorno.
È in quel preciso momento che decido che non mi piace avere paura, e io non avrò paura.
Ad ogni squadra viene dato un nome, chiamano la mia squadra, e ci fanno salire su per uno scalone, arriviamo in una camerata dove ci sono tantissimi lettini, ce n’è uno diverso però protetto da delle tende. Aaaa, ho capito, è il letto della nostra signorina con il grembiule ed il fischietto.
Ad ognuna di noi viene assegnato il lettino, attenzione ricordati esattamente qual è il tuo lettino, potresti essere punito se lo dimentichi. Aggrotto ancora le ciglia.
Vicino al letto, c’è un piccolo comodino, dove ci fanno mettere dentro i nostri sacchetti, però cosa succede, prima di mettere i sacchetti dentro a quei comodini, la signorina guarda dentro ad ognuno di loro e ci prende dolcetti, caramelle, cioccolatine, rito che si ripeterà tutte le poche volte che mamma e papà ci verranno a trovare e che, attraverso la rete ci porteranno dei dolcetti.
Accidenti… le mie caramelle, ma erano mie.
Dopo il pranzo ci riporteranno di nuovo qui, ci faranno spogliare e, tutte a letto tutte girate verso il mare, per non aver modo di parlare con la bambina di fianco perché se parlerai o se non dormirai, la signorina con un frustino ti picchierà sui piedi.
Debbo farmi furba, nei prossimi giorni non mi farò più picchiare sui piedi, farò finta di dormire finché la signorina non sarà uscita dalla camerata. Fuori dalla camerata c’è un’altra camera grande con tanti lavandini e i gabinetti. sento un forte odore di dentifricio. Scendiamo di nuovo al piano dove ci portano, sempre in fila come soldati, in un salone con dei tavoloni di legno e delle panchette.
I tavoloni sono apparecchiati e, ogni 10 bambine, c’è una caraffa d’acqua, patiremo la sete per tutto il periodo. Ci danno da mangiare, attenzione, dopo non ti puoi portare niente in camerata.
Dopo il pranzo ci riportano in camerata per il sonnellino. Eccoci tutte nel letto, girate verso il mare. il mare non deve essere tanto lontano, sento il rumore delle onde.
Il caldo pomeriggio trascorre nel cortile con pochi alberi, a fare giochi collettivi, giro tondo, nascondino, salto con la corda, giochi con la palla, gare di corsa, luna, mondo…
Ecco, qui mi ci trovo proprio bene, sono abituata a misurarmi con i miei fratelli e i giochi fisici mi piacciono e sono piuttosto brava in questo.
La cena è uguale al pranzo. Adunata nel cortile per l’ammainabandiera e tutti a letto.
Nei prossimi giorni, qualche volta ci porteranno poi in spiaggia a giocare, e a fare qualche passeggiata in riva al mare tutti con lo stesso costume e lo stesso cappellino da “braccio di ferro”.
Ho fatto una bella scorta di noccioli di pesca, nascondendoli di volta in volta in bocca per non farmeli sequestrare. Con i noccioli giochiamo in spiaggia a sasso carta forbice e altri giochi di abilità. ogni volta la signorina poi me li prende ma io… ne ho tanti ben nascosti.
I giorni passano, uno sempre uguale all’altro, ma noi, noi sì che siamo cambiate, non abbiamo più paura, siamo più scaltre, sappiamo gestire meglio i momenti, niente più frustino sui piedi, abbiamo anche trovato un nascondiglio per le caramelle. sappiamo quando tacere e quando parlare, sappiamo che la signorina non è poi così cattiva e che anche lei deve eseguire gli ordini della direttrice.
Abbiamo imparato a farci bastare il cibo e l’acqua, abbiamo inventato nuovi giochi e abbiamo stretto tante amicizie.
È arrivato il momento di tornare a casa, siamo tutte un po’ più magre ma con i muscoli sviluppati, un sorrisino sulla faccia e lo sguardo dritto, non più abbassato.
Qualcuno è triste, qualcuno piange, qualcuno tace, qualcuno è lì seduto con lo sguardo nel vuoto.
Ci salutiamo, ci abbracciamo ma nessuna di noi dice arrivederci al prossimo anno. Io dico, addio colonia, addio vacanza, addio signorina, addio direttrice.
Non mi rivedrete mai più e sorrido e faccio un gesto di saluto con la mano. Ciao colonia, ciao MareBello, le bambine del 1963 ti salutano.
E me ne vado canticchiando questa canzone.
La corrente elettrica la corrente forte noi siam della colonia pericolo di morte, dai dai dai combiniamo tanti guai.
Se non ci conoscete guardateci il cappello noi siam della colonia terribile macello, dai dai dai combiniamo tanti guai.
Se non ci conoscete guardateci il maglione, noi siam della colonia terribile squadrone, dai dai dai combiniamo tanti guai.
Se non ci conoscete guardateci nel viso noi siamo degli angioletti che vanno in paradiso, dai dai dai combiniamo tanti guai.
Le nostre signorine vanno in aeroplano per fare vedere le gambe al popolo italiano, dai dai dai combiniamo tanti guai.
Le nostre signorine si credono di essere belle ma proprio per questo rimangono zitelle, dai dai dai combiniamo tanti guai.
Le nostre signorine son belle di pittura, invece noi che siam bambini siam belli di natura, dai dai dai combiniamo tanti guai. Mmm m mmm mm m…

MARZIA RAVAZZINI
marziaravazzini@yahoo.it


La vita come dovrebbe essere, recita il motto di questo stato del New England, destinazione di un’estate diversa. Spazio, aria, verde, un oceano con onde forti e balene giganti e baie ed isolette profumatissime, al termine delle quali spuntano gli oltre sessanta fari.
Ho un debole per la natura che riflette ogni sua bellezza, in maniera quasi spudorata. E per i luoghi che la rispettano, lasciandola esprimere senza soffocarla.
Ogni curva della strada che costeggia l’Atlantico è uno scenario da dipingere, con colori e nuvole che si mischiano senza farti capire più dove inizia il cielo o dove l’azzardo della flora ha compromesso il confine e la natura stessa. L’uomo si incastra in questo piccolo grande quadro con una concreta necessità: sopravvivere al clima – spesso duro – e alle difficoltà dell’isolamento.
E lo fa, con qualità e stile. C’è l’essenziale, come le barche attraccate, i moli discreti, le casse per le aragoste nella zona costiera, e le fattorie di miele, formaggio e i tanti animali da allevamento.
Si capisce allora perché molti film sono stati girati qui, e molti pittori e scrittori ne trovino rifugio. Anche eterno, come Marguerite Youcernar, seppellita nel dolce cimitero di Brookside, vicino alla penisola di San Giorgio; la cerco tra le tombe, e la trovo che riposa là, sotto una semplice lapide di pietra in terra, nel verde “prato-Inghilterra” tra i fiori rosso cardinal e il dolce scorrere del torrente affianco. Le faccio visita e in silenzio resto incantata. Risuonano le parole di “Le memorie di Adriano”, ed in particolare: “Ogni piacere si arricchisce del ricordo di piaceri trascorsi”.
Potrebbe essere questo il sunto della vacanza in Maine, scelta obbligata dalla rinuncia forzata alla mia Italia e all’Europa, e in particolare quest’anno, meta ambita da molti americani sulla East coast, perché permette di evitare le coste affollate delle due Caroline e della Florida, così come di rispettare il distanziamento. È la prima volta che per andare in vacanza si prendono in considerazioni bandi in rigore per la circolazione nei diversi paesi, non si considera l’aereo per i rischi non necessari e l’incertezza delle cancellazioni, si analizzano le diverse tipologie di alloggio (albergo, cottage, casa privata) per evitare luoghi pubblici ed aree condivise al chiuso, e si deve programmare un test che deve essere valido entro 72 ore e che deve risultare negativo – altrimenti si perdono prenotazioni e non sono previsti rimborsi.
Lo scrivo così, tutto di un fiato, ma non è stato un atteggiamento sereno quello che ha guidato la decisione e che avrebbe voluto portare leggerezza dopo il periodo di lockdown, difficile per tutti perché segnato da rinunce e pensieri pesanti. Ogni tappa nell’organizzazione suggerisce di rinunciare e restare a casa. C’è, però, il desiderio di movimento, di cambiare scenario e colori; c’è la voglia di vivere avventure e ritrovare sensazioni ed emozioni di riposo e di vacanza, perché tutti sembrano aver bisogno di sorridere.
E così, come mi ha sussurrato la scrittrice francese, in Maine mi ritrovo a riprovare piaceri antichi, dal sapore mediterraneo, quasi di casa, al di là delle latitudini.
Le grida ed il suono dei racchettoni sotto il lungo molo ricoperto di Old Orchard Beach, a sud di Portland, e le passeggiate sul bagnasciuga mi parlano di spiagge dell’est nel Friuli turistico.
Il profumo di pino e il verde intenso sulla costa di Birch Point, a sud di Rockland , richiama lo specchio verde delle acque istriane.
Gli scogli neri ricoperti da spruzzi bianchi, caldi e fumosi per il sole trattenuto durante il giorno delle Giant’s Stairs (geologicamente parlando antiche oltre 500 milioni di anni), sulla punta di Harpswell, rimandano alla Sicilia e alle insenature della selvaggia Favignana.
La spiaggia di sabbia di Sandy Beach – elemento naturalistico raro nell’ecosistema del Maine – che si affaccia su di un mare trasparente, azzurrissimo e molto freddo (7-13 gradi come massima, d’estate), è la sorella gemella delle distese sabbiose del Salento.
I piedi nudi che saltellano per oltre un’ora sugli scogli di granito rosa di Thunder Hole, sotto il punto d’osservazione di Otter Cliff, assomigliano alle pietre rosa della Sardegna, sulla costa orientale.
Le acque verdi e dolci del piccolo lago di Megunticook, dietro Camden, hanno il sapore del lago d’Orta.
I moli della marina di Rockport, carichi di pescatori e marinai dall’odore che pizzica il naso, ricordano immediatamente le marine di Lussino Piccolo, in Croazia.
E ancora, i sentieri nel bosco dell’Acadia National Park hanno il profumo della macchia mediterranea, tra volpi, cervi e conifere, betulle luminose con tronchi lucidi e bianchi come l’albume montato.
È il magico incrocio tra le dimensioni di spazio e di tempo che colpisce e mi cattura.
Lo spazio, immenso ma curato, e così diverso da voler essere dipinto, come gli acquerelli di Barbara Ernst, che visito nella sua art gallery a Port Clyde, a due passi dal famoso faro di Marshall Point.
Ed il tempo, che ha ritmi più semplici, scanditi dalle luci naturali per cui non si può non svegliarsi all’alba e non addormentarsi alla luce della luna. Anche i ristoranti – in alta stagione estiva – non accettano prenotazioni dopo le 7 di sera.
È un tempo che si è fermato alle tradizioni; questa sensazione ti coglie ad ogni piccolo incrocio di due strade, davanti a moli che si affacciano su ampie baie di fango o di acqua, in base alla marea (l’acqua può arrivare anche a ritirarsi di 17 metri!), ti ritrovi ad entrare in un general store ricco di tutto, cibo fresco e chincagliere impolverate. Quando esci, stordita e rilassata, devi sforzarti a capire in quale secolo tu sia.
La sintesi di questo equilibrio me la racconta la biologa marina Ruth, in barca in mezzo al piccolo arcipelago di fronte a Bar Harbor. Usciamo insieme per monitorare la fauna di una piccola isola lungo la traiettoria di Egg Rock, casa di puffin – uccelli buffi e pacioccosi con sembianze di pinguino – e right whale, piccole balene. Osservando la terra ferma, a sinistra ci sono scogli al sole e foche marine, che in colonia trovano l’habitat giusto per non essere a rischio dai grandi rapaci; a sinistra, tra cespugli e conifere, un’aquila reale ha costruito il nido e si scorgono 3 giovani adulti, con ancora qualche piuma bianca, che sono già scesi dal nido ma non si allontano ancora; la cosa straordinaria è che, da generazioni, non attaccano i piccoli di foca della parte sinistra dell’isola.
Nel mare, invece, tra i flutti non profondissimi, si scorgono i mille colori delle infinite buoy – le boe che segnalano la posizione delle gabbie per catturare le aragoste, piatto tipico del Maine, bontà gustata in ogni angolo del paese. È una costellazione colorata che galleggia sulla superficie talvolta increspata del mare, assolutamente necessaria per l’economia del paese (e dei turisti in cerca di qualità), che rappresenta una bella metafora in questo tempo di pandemia: restare distanti ma responsabilmente uniti, per sopravvivere e anche gustare un po’ il buono che viene.
A lobster a day, take COVID away” (un’aragosta al giorno toglie il COVID di torno) leggo su un cartello lungo la strada costiera route 1.



Ne faccio tesoro, in vista dell’inverno.

RODOLFO SARACCI
saracci@hotmail.com


In luglio scrivevo* che questa era una estate strana, nei miei ricordi solo comparabile per stranezza a quella del 1944, in piena seconda Guerra mondiale. Agosto mi ha confermato in altro modo questa sensazione: osservando la notte il cielo man mano che concentravo lo sguardo su una stella questa cambiava forma e assomigliava a un punto interrogativo. Ne ho collezionato un largo numero e ne tiro fuori a caso quattro.
Prevenzione? Dice il giornalista (TV francese): “A marzo in Francia avevamo le unità di rianimazione che non reggevano il sovraccarico di pazienti e per questo abbiamo introdotto il confinamento generalizzato, lockdown, adesso i casi positivi aumentano nella popolazione ma i posti in rianimazione sono poco occupati: perché infliggiamo ancora e chissà per quanto alla gente delle misure restrittive individuali e collettive?”. L’abitudine alla filosofia e alla pratica del lavorare in just-in-time, in flusso teso, e del risolvere i problemi solo quando ci sono addosso, impedisce di discernere la catena causale per cui quando i letti in rianimazione sono saturi vuol dire che ben prima e a monte la diffusione dell’epidemia nella popolazione è andata fuori controllo per insufficienza delle misure – preventive – di contenimento. Il peggio è che argomenti come quello del giornalista li ho sentiti qua e là anche tra professionisti della sanità per i quali evidentemente la prevenzione resta una parola dal significato traballante.
Debito? Si parla molto giustamente dei problemi dei giovani, da quelli che affrontano oggi scuole in forme anomale e didatticamente minorate a quelli che sono confrontati a un mercato del lavoro come minimo incerto. Sospetti peraltro appaiono i discorsi di quanti ieri irridevano le apparizioni di Greta Thunberg e gli argomenti dei giovani sul pesante debito ambientale causato dalla civiltà industriale e oggi dicono di preoccuparsi del debito finanziario (pubblico, sul privato sono discreti) che si sta contraendo e graverà sulle generazioni future. In realtà è il debito ambientale di cui occorre prioritariamente preoccuparsi perché è un debito di risorse materiali contratto dall’umanità nel suo complesso con la natura, e non c’è una seconda natura con cui ripagarlo, mentre il debito economico è un debito che l’umanità contrae con sé stessa. Creditori e debitori sono tutti umani e la somma algebrica di tutti i debiti e crediti è zero, ciò che indica chiaramente la natura contrattuale e socialmente determinata del debito economico: questo ha un importante peso, come lo hanno tutte le leggi umane, ma l’uno e le altre sono modificabili dalla volontà umana attraverso l’azione politica, mentre debito e leggi della natura sono immodificabili. Chi pretende di preoccuparsi dei giovani dovrebbe occuparsi anzitutto di non lasciare loro l’eredità di un mondo irrespirabile e di una natura depredata piuttosto che di un debito economico rilevante ma politicamente modificabile: a meno che l’interesse per i giovani non copra invece l’intenzione di nulla modificare e di continuare con business as usual.
Vaccino? L’attesa del vaccino sta aumentando proporzionalmente alla durata delle restrizioni di vario genere che si impongono per controllare l’epidemia e proporzionalmente aumenta anche il rischio di disillusioni. “Rischio” implica che non necessariamente queste ci saranno, e speriamo non ci siano, ma una mi pare essere più pericolosa di tutte: la ricaduta sulla pratica delle vaccinazioni in generale. L’epidemia oltre agli effetti diretti in termini di morbosità e mortalità per COVID-19 sta già avendo pesanti effetti indiretti in termini di aumentata morbosità e mortalità per altre patologie che a causa dell’impegno dei sistemi sanitari per la COVID-19 non vengono prevenute (tipica la caduta dei tassi di vaccinazioni con scarse risorse) o non vengono adeguatamente e tempestivamente trattate. Si veda a questo proposito il recentissimo Pulse survey on continuitty of essential health services during the COVID-19 pandemic dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se dei vaccini anti SARS-CoV-2 adottati per l’uso su larga scala dovessero risultare deludenti perché scarsamente efficaci e/o sicuri a causa della precipitazione con cui sono stati studiati l’effetto sulla adesione alle vaccinazioni in generale sarebbe rovinoso. In questo momento potenti forze spingono a fare il salto dalla speditezza, benvenuta, alla precipitazione, foriera di guai per il bene comune: alimentano soprattutto questa spinta capi di governo di grandi paesi per i quali la nozione di “bene comune” significa essenzialmente “io sono il bene comune”.
Mahler? Per diciassette anni, da quando nel 2003 Claudio Abbado ha fondato la Lucerne Festival Orchestra (LFO), agosto per me voleva dire Lucerna: a ascoltare Abbado fino al suo ultimo concerto pubblico del 2013 (è mancato nel gennaio del 2014), con le due sinfonie ‘incompiute’ di Schubert e Bruckner, e poi altri musicisti. Quest’anno il Festival, che dura un mese ed è divenuto il più voluminoso d’Europa, è stato cancellato in blocco e poi recuperato “per l’onore” con solo un paio di concerti: mantenendo il distanziamento fisico una rarefatta LFO di soli 36 membri ha eseguito l’Eroica di Beethoven con la direzione, a memoria, dello svedese Herbert Blomstedt, novantatré anni, andatura sportiva. Ho visto il concerto alla TV. Se orchestra e direttore sono bravi, come era il caso, una sinfonia di Beethoven (forse perfino la nona) può essere una riuscita, ma questo è impossibile per una sinfonia di Mahler. La risposta alla domanda “quando finirà l’epidemia?” è abitualmente: “quando arriva il vaccino”. Mi sembra una risposta riduttiva, perché ci sono altre possibilità, e azzardata, perché ci sono incertezze. La constatazione più attendibile del fatto che il virus è stabilmente sotto controllo è: “quando sarà possibile eseguire in una sala affollata una sinfonia di Mahler”.




BENEDETTO SARACENO

benedetto.saraceno@gmail.com


Ho un giardino grande e pieno di alberi: una bella fortuna in tempi di lockdown.
Vivo in un paesino francese al confine con la città di Ginevra e faccio spesa nel locale supermarket non troppo affollato: un’altra bella fortuna.
Intorno alla mia casa ci sono grandi foreste in cui posso camminare per ore senza incontrare nessuno: che c’è di meglio per stare nella natura in solitudine...
Sono proprio fortunato.
Ma dall’inizio dell’anno non guadagno più nulla: avevo una collaborazione a Milano che si è interrotta a partire da febbraio; lavoravo per un istituto di formazione a Lisbona che ha chiuso i battenti in marzo; avevo un contratto di consulenza con OMS che è stato annullato.
Interruzioni transitorie dovute al COVID-19, direte voi, poi tutto riprenderà nel 2021. Ma io ho 72 anni e ogni lasciata è persa alla mia età. Non credo proprio che a 73 anni qualcuno mi offrirà nuovamente di lavorare.
Dunque da ricco che viveva di pensione più attività retribuite ora vivo di sola pensione e non mi basta. Faccio furiosamente i conti ogni settimana, calcolo quanti anni potrei ancora vivere e quanti soldi mi dovrebbero servire e quanti ne ho e quanti ne mancano.
Da spensierato benestante sono divenuto un pensieroso pensionato.
E poi: basta riconoscimenti, gratificazioni narcisistiche, applausi, conferenze affollate.
Ma soprattutto è finita la rassicurante sensazione di fare qualcosa che serve, di contribuire a un pensiero e, forse, a una azione positiva di salute pubblica.
Basta tutto.
Taglio l’erba, poto, faccio marmellate di ribes, lamponi e prugne.
Dipingo come un modesto pittorino della domenica.
Scrivo improbabili memorie che nessuno leggerà mai (e giustamente, perché mi sono reso conto che per scrivere di sé bisognerebbe avere davvero contribuito molto e in grande, ma non è il mio caso e allora restano memorie che fluttuano fra l’aneddottica e il filosofare dell’anziano non ancora indementito).
Cucino bene e ingrasso.
Non sopporto la televisione italiana e i suoi salottini della politica sempre uguali, sempre urlati, sempre occupati dai soliti cattivi e dai soliti buoni.
Il dibattito nella televisione francese è di livello più elevato e le persone sembrano più informate e colte ma la mia passione per la politica francese è tutto sommato modesta.
Scarico qualche buon film.
Qualcuno ha detto che la pandemia avrebbe portato rivolgimenti drammatici (rivolte, disastri ecologici, crisi finanziarie epocali) e qualcun altro ha pensato e scritto che ci sarebbe stata una palingenesi verso il bene (nuove consapevolezze, nuove responsabilità civili, nuove priorità, crisi del neoliberismo rampante, ritorno a valori buoni).
Il “dopo” o nero o luminoso.
A me pare che si assista piuttosto a una bella regressione alla media: business as usual.
A me ha portato una certa nuova capacità di essere inattivo e qualche ansiosa periodica misurazione della febbre.
Niente di straordinario. Niente di utile.
Ma per gli altri?
I più giovani che perderanno il lavoro?
Le mamme esasperate dalla assenza della scuola che le ha obbligate a simbiosi defatiganti con i loro piccoli bambini?
Quelli che hanno perduto tutto perché avevano attività economiche fragilissime e impreparate anche a sole poche settimane di interruzione?
Ai vecchi che sanno che la morte è lì all’angolo più vorace che di norma?
Ai malati, ai poveri, ai senza dimora, ai disabili gravi, ai clandestini e a tutti quei tanti vulnerabili uomini, donne e bambini che sono stati, sono e saranno quelli che pagano il conto più salato. Perché questa pandemia su di una cosa è stata chiarissima: molti, anzi moltissimi, contano di meno di altri, sono vite nude di scarto.
Sono scarti di una economia lineare che usa e getta: le persone come la plastica, scarti che finiscono a galleggiare nel mare oppure affogati.
Per questi “altri” c’è una speranza?
Esistono avanguardie capaci di governare la crisi, di governare i conflitti trasformando la rabbia e il rancore in progetto politico?
Esiste una visione di un progresso senza le stimmate del feroce sviluppo neoliberale? Esistono classi dirigenti degne di questo nome? Ossia che non si limitino a promuovere i linguaggi dei più brutali squadristi oppure che semplicemente sopravvivono dentro una logica di modesti calcoli di alleanze da fare e disfare?
Esiste un futuro per la Politica?
Chissà se oramai questa domanda non sia disperata quanto quella che si chiede se esista Dio.




MICHELA CHIARLO
michelachiarlo@gmail.com


Yazd, Iran, Agosto 2017
Dicono che coprirsi protegga dal caldo, per questo i berberi del deserto si avvolgono in drappi che lasciano visibili solo gli occhi, eppure la sensazione che ho, sotto l’hijab mal annodato e la tunica a maniche lunghe, è ben diversa. Il caldo secco è molto meglio del caldo umido, si dice. Eppure quando il vento ardente del deserto soffia così forte da impedirti di alitare sugli occhiali per pulirli perché assorbe anche l’ultima molecola di vapore non sembra esserci differenza. Si arranca, si suda sotto gli strati di lino e cotone, ma fa così caldo che il sudore evapora, sublima, lasciando spossati.

Torino, Italia, Aprile 2020
La prima volta che ho visto una tuta da contenimento biologico avevo 5 anni, il film era E.T. e per me gli alieni erano quegli uomini sinistri vestiti di bianco, non certo il tenero pupazzo animato. Se mi avessero detto che un giorno di lì a trent’anni avrei vestito quegli stessi inquietanti panni bianchi che nascondono il viso sarei probabilmente scoppiata a piangere. Ma non è a questo che penso, in un pomeriggio di primavera, uscendo dall’open space dove sei pazienti COVID respirano nei loro caschi e togliendomi la tuta, il filtrante, il visor, i guanti e assaporando il sollievo della divisa a maniche corte in un pomeriggio di primavera. Penso al viaggio in Iran, alle due settimane passate ad immergermi in una cultura meravigliosa e a dannarmi con pantaloni lunghi, tuniche, camicioni, veli che non ne vogliono sapere di stare fermi sotto un sole impietoso e avvolta in un caldo asfissiante.
Penso al sollievo, al ritorno, del primo giro in motorino: la dolce carezza del vento sulle braccia nude, un piacere che avevo quasi dimenticato, o forse mai davvero apprezzato.

Bardonecchia, Italia, Giugno 2020
Respirare a pieni polmoni l’aria di montagna senza l’ostacolo della mascherina. Muovere i piedi a ritmo con il cuore, un passo dopo l’altro fino alla cima. Abbracciare un’amica, per la prima volta dopo tre mesi, non senza un attimo di esitazione e la sensazione di compiere un gesto rivoluzionario. Ammirare il verde dei boschi, l’azzurro del cielo, il blu dei laghi, il giallo del fieno, scenari dimenticati a un’ora da casa. Siamo umani, ci adattiamo con grande facilità alle peggiori disgrazie, puntiamo a sopravvivere in qualsiasi circostanza, abbiamo la memoria breve, utile a non impazzire nel confronto tra passato e presente. Corollario ne è, però, che la gratitudine dura pochissimo, subito assorbita da una nuova normalità in cui la mascherina è un peso, le spiagge e i sentieri si riaffollano, il vento sulle braccia è piacevole, ma non fa più notizia. Per questo non credo che “ne usciremo migliori”. È impossibile conservare per sempre la gioia pura del vento sulla pelle, di una boccata d’aria a pieni polmoni; ciò che è necessario serbare, nel profondo del cuore e della memoria, è la consapevolezza di aver un giorno gioito per una cosa banale come l’aria. Anche quando non ci ricorderemo più che per mesi ci è sembrato normale rimanere in casa o lavorare rinchiusi in uno scafandro, dovremo sforzarci di riportare alla memoria il gusto della prima pizza in pizzeria, l’entusiasmo del primo aperitivo, la purificazione rigenerante della prima passeggiata o del primo bagno in mare. I più saggi di noi sanno che questo ricordo sarà tra le armi più preziose per affrontare il prossimo inverno.





FRANCESCA BOSCO
francesca.bosco76@gmail.com


Cara Amica mia, come finirà?
Te lo chiedo, ma non voglio una risposta.
Desidero godere ancora della sabbia calda sotto i piedi, di un mare in cui solo tre mesi fa, non osavamo sperare.
La domanda mi torna alla mente alla sera, quando non vorrei pensarci. L’unico desiderio è godere la normalità di una vacanza con la focaccia appena sfornata, il profumo di crema solare…

Che bello sentirti! Come finirà?
Non sei la prima a chiedermelo, io stessa me lo chiedo senza sperare in una risposta. La verità è che non lo so. Non so se riapriranno le scuole, se al rientro dalle ferie mi attenderà la tuta bianca impermeabile per entrare in zona rossa.
Non lo so e, probabilmente, non lo vorrei davvero sapere. Quello che so è che è estate, ma non per tutti. Ricordo tra tutti un paziente: quello che quest’estate non avrà il suo tramonto sul mare in cui ha sperato l’attimo prima di essere intubato. E questo basta ad intaccare la nostra speranza di serena normalità.

Carissima,
hai ragione, ci mancano tante risposte ed è rimasto un gran vuoto in noi. Ma sappiamo con certezza quanto abbiamo lottato in quei mesi, quanto ci siamo sentiti uniti… ricordi come ci siamo sentiti “famiglia” tra colleghi?... Sappiamo che quando sentir dire “andrà tutto bene” suonava alle nostre orecchie poco veritiero, abbiamo trovato in noi una forza insperata. Sappiamo che oggi dobbiamo convivere con il timore della seconda ondata che aleggia cupo, ma stavolta siamo allenati. In questo dobbiamo credere per sapere come finirà.
Ti auguro una buona fine di vacanze e la forza per ricaricare le energie.
A presto.

SILVIO GARATTINI
silvio.garattini@marionegri.it


Potrei dire di avere trasferito il mio ufficio dall’Istituto Mario Negri a Domos de Roca in Sardegna a Sud di Olbia fra Porto S. Paolo e S. Teodoro. Una casetta molto bella di mia moglie che purtroppo non c’è più. Il posto è splendido con un bel giardino ed una vista fantastica: macchia mediterranea, mare, golfi e l’isola di Tavolara. Le giornate sono passate rapidamente con un occhio ai giornali ed una sensazione di rilassamento dovuta ai bassi contagi da SARS-CoV-2 e alle promettenti notizie sullo sviluppo di vari vaccini nonché su nuovi anticorpi monoclonali per una terapia si spera più efficace rispetto a quelle utilizzate finora. Il lavoro non è stato differente dal solito: qualche intervento televisivo e radiofonico, qualche intervista e articoli. Un po’ di studio sulla letteratura scientifica grazie all’aiuto delle nostre bibliotecarie e la preparazione di conferenze per i prossimi mesi nella speranza che possano realizzarsi in condizioni di normalità. Non c’è nulla di peggio del non vedere il pubblico a cui si parla per capirne la comprensione e le reazioni.
Al di là di queste attività c’è stato il piacere degli incontri serali con pochi amici sardi e del “continente”. Un paio di gite in barca in distese azzurro cangiante tipiche del mare sardo e qualche gita al Gennargentu in Barbagia. In realtà il vero scopo di queste vacanze era la speranza di poter scrivere un testo che, partendo dalle lezioni del COVID-19, potesse dare un contributo a migliorare il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che, pur essendo in evidente lento ma costante declino, è pur sempre uno straordinario bene per la salute individuale e collettiva. Sono riuscito a scriverlo anche se richiederà un lavoro di rifinitura. Non svelo il contenuto, ma se vedrà la luce il titolo potrebbe essere: “Il SSN in sogno”.
L’ufficio è di nuovo ritornato al “Mario Negri”!




FABIO SERENI
fabio.sereni@unimi.it


Senza soldi, senza tranquillità, senza serenità. Così il mio amico Bonati definisce questa estate, sicuramente diversa per molti. Ma confesso, per me non è così, forse per la tarda età che fatalmente ottunde la sensibilità agli stimoli esterni. Questa, nel silenzio della grande città, è per ancora una volta una pausa estiva di attesa, non oso dire fiduciosa, di un risveglio autunnale diverso, nella speranza che la tragedia del COVID abbia insegnato qualcosa, vorrei dire svegliato chi ci governa, a tutti i livelli, per la sanità. Soprattutto che non si governa efficientemente senza unire qualità e quantità, ricerca e pratica clinica, ospedali e territorio, cura e prevenzione. A me sembra quasi impossibile che i 35.000 nostri morti da COVID non abbiano svegliato menti e coscienze. Confesso che a volte mi viene il desiderio di urlare, per svegliare, in questo silenzio agostano chi ha, a tutti i livelli, il potere di cambiare. Ma forse non vi è più sordo di chi non vuole sentire. E intanto il pensiero ricorre spesso a quanto avviene in Paesi lontani, che ho amato ed amo, anche e soprattutto per la pandemia, laddove non vi è cura adeguata, né prevenzione.




VITTORIO FONTANA
vitto.font@gmail.com


Ad agosto leggo molto. A Milano ad agosto c’è l’atmosfera giusta per leggere. Quel caldo che ti si appiccica addosso come sudore, il tempo sospeso, il silenzio, le strade semivuote, il mondo svuotato dagli umani almeno in numero sufficiente da farti sentire in vacanza, anche se continui a lavorare.
Quando torni a casa e tiri fuori dal frigo l’acqua frizzante ghiacciata e la bevi tutta in un sorso rischiando il colpo apoplettico ti rimane solo da buttarti sul divano a leggere.
Almeno a me. Così leggo molto. C’è la giusta attenzione. Non la stanchezza serale prima di dormire con il libro che ti pende dalle mani e casca per terra, le frasi che devi rileggere perché non le ricordi anche se le avevi lette un secondo prima.
I nomi dei protagonisti che si confondono, gli intrecci che sfumano, le frasi memorabili che si perdono oltre le palpebre che si abbassano.
A Milano ad agosto c’è l’attenzione giusta.
E a pensarci bene anche il lockdown altro non è stato che un lungo agosto milanese fuori stagione. Infatti, anche allora, ho letto molto.
In questo delirio di estate che sembra correre via veloce solo per farci capire contro che autunno stiamo andando a sbattere, sono circondato da parole allarmanti che mi frullano in mente e mi scatenano ansia alternata a calma cosmica, il tutto ogni quarto d’ora senza soluzione di continuità
So che non avrò mai le forze per affrontare un’altra apocalisse e so che se sono scampato alla prima ondata non vuol dire per forza che sopravviva alla seconda.
Ho l’età giusta per intubazione e pronazione. Solo che non ne ho voglia.
Il Rosarione (Rosanna Bertozzi in Emozioni Virali) ha proprio ragione. Non ho voglia di vestizione/svestizione, maschera, visiera, doppi guanti, gel e disinfezione a ciclo continuo. Non ho voglia e sento di non averne le forze. Allora leggo e chissà perché leggo solo classici italiani.
Vedo distintamente gli autori che siedono sul bracciolo del mio divano e ogni tanto bevono la mia acqua frizzante ghiacciata con mezzo limone spremuto.
Lussu (Un anno sull’Altopiano) si lamenta perché vorrebbe una grappa ma questo c’è e si accontenta.
Lui usa ironia e sarcasmo come non me lo ricordavo e sa bene di cosa parla.
I generali passano dalla trincea a salutare i soldati e richiedono atti di eroismo ma stanno al riparo nelle loro tende e se sbagliano strategia sei tu che rimani sul terreno di battaglia.
La grappa più dei moschetti – mi spiega – bevi la grappa e aspetta che passi.
Poi c’è Milton, il partigiano Milton di Fenoglio (Una questione privata) che cammina inquieto nella stanza come sulle colline delle Langhe. Coraggioso Milton che combatte le sue pene d’amore insieme alla guerra partigiana. Vorrei tornare adolescente e avere la stessa forza e lo stesso coraggio.
Dal terrazzo di casa io e Fenoglio guardiamo l’orizzonte con un bicchiere di vino rosso tra le mani, lui fuma le sue immancabili sigarette, una dopo l’altra, proprio come faceva mio padre.
Che autunno sarà Milton/Fenoglio/Papà?


GAVINO MACIOCCO
gavino.maciocco@gmail.com


Ai primi di febbraio di ogni anno – da alcuni anni – siamo soliti prenotare una casa per le vacanze, ad agosto in Versilia (più precisamente a Tonfano, Marina di Pietrasanta). Anche quest’anno si è ripetuto quel rito ma mentre mi apprestavo a fare il bonifico per l’anticipo dell’affitto non potevo certo pensare che di lì a poco quella vacanza si sarebbe trasformata in un miraggio a causa dell’irrompere della pandemia e del conseguente lockdown. Solo alla fine di maggio è ripresa la speranza di poter andare liberamente al mare e alla fine fortunatamente mare è stato.
Quando il primo di agosto ho raggiunto l’agognata meta ero ansioso di vedere quanta gente c’era e come funzionavano le cose: le distanze tra gli ombrelloni, l’uso delle mascherine, gli assembramenti, la disponibilità di disinfettanti per le mani, ecc. Tanta gente, come gli anni scorsi, ma ci voleva poco a capire che la popolazione era cambiata: pochissimi turisti stranieri (interamente rimpiazzati dagli italiani) e molti più giovani toscani della fascia 15-20 anni, che quest’anno hanno evidentemente preferito ritrovarsi al mare vicino a casa piuttosto che andare a giro per il mondo (questione di soldi, timori/restrizioni dei viaggi?). Ma la vera sorpresa è stata la disciplina con cui si svolgeva la vita, sia presso lo stabilimento balneare che nelle strade, nei negozi, nelle gelaterie, nelle pizzerie. L’uso delle mascherine all’interno era rispettato ovunque, ma mascherine si vedevano anche all’aria aperta e sulla spiaggia. In qualsiasi situazione di accesso multiplo – al bar, all’edicola, al forno – le persone indossavano la mascherina e si mettevano ordinatamente in coda, rispettando le distanze e spruzzandosi il gel – disponibile ovunque – sulle mani. Italiani brava gente, pensavo: ce la possiamo fare.
Anche la natura contribuiva a rendere piacevole la vacanza. L’effetto purificatore del lockdown aveva funzionato anche in Versilia: l’aria era calda (come da stagione) ma tersa e frizzante; dalla spiaggia si poteva vedere distintamente la costa sud fino a Livorno, mentre alle spalle le Alpi Apuane parevano più vicine e maestose, con un profilo più netto; le tante bouganville ai lati delle strade mai viste così rigogliose; il parco della Versiliana mostrava un singolare splendore e sembrava completamente guarito dalle ferite inflitte dal terribile tornado del marzo 2015. Il mare della Versilia, com’è noto, non è pulito e trasparente come quello dell’Elba, inoltre è assai frequentato dalle meduse, che quest’anno però si sono date una regolata: se ne sono viste poche e anche loro hanno evitato gli assembramenti.
“Positiva va in disco, scatta l’allarme. L’Asl ‘Chi era lì il sabato faccia il test’. Il caso a Marina di Pietrasanta”. Inizia così con un articolo di mercoledì 12 agosto una nuova fase della vacanza in Versilia. Il fatto: una ragazza di ritorno dalla Grecia aveva fatto il tampone venerdì 7 agosto ma – sentendosi bene e senza attendere l’esito dell’esame – sabato sera si reca a ballare nella discoteca Seven Apples. Quando lunedì arriva il risultato e parte l’indagine epidemiologica scatta l’allarme e l’appello dell’Asl ai frequentatori della disco di farsi vivi e sottoporsi al test. “Il popolo della notte trema, corsa al tampone. Sono già 550 le persone che hanno segnalato spontaneamente all’Asl la presenza in discoteca. Esami di massa a Ferragosto”, questo si legge sui giornali giovedì 13 agosto, ma il numero dei ragazzi e delle ragazze che dichiarano di essere stati lì la notte tra sabato e domenica sale di giorno in giorno per arrivare a 850. Ragazzi e ragazze provenienti da tutte le parti della Toscana, ma anche della Liguria e dell’Emilia. Per le famiglie è stato uno shock: moltissimi genitori hanno portato i loro figli a fare il test privatamente, molti hanno interrotto le vacanze e sono tornati a casa. Data la diversa provenienza delle persone che hanno affollato la discoteca a oggi non è noto il numero dei contagi prodotti quella sera in quella discoteca, ma se in una sola sera in una qualunque discoteca si ammassavano almeno 850 persone si spiega facilmente l’aumento dei casi verificatosi in Toscana nei primi 15 giorni di agosto e anche in Italia (da 159 a 629).
Con colpevole ritardo il Governo riconosce l’errore di aver aperto le discoteche e il 16 agosto le chiude. Subito dopo scoppia il caso Billionaire-Costa Smeralda con decine di contagi e migliaia di contatti. Ma una differenza salta agli occhi tra il popolo di Marina di Pietrasanta e quello di Porto Cervo. Il primo si è precipitato a dire “io c’ero, fatemi il test”, il secondo si è dileguato rilasciando indirizzi falsi o dicendo di avere solo una prostatite.





FEDERICO MARCHETTI
federico.marchetti@auslromagna.it


Fa molta impressione, tra le centinaia di articoli sul COVID-19 relativi anche all’età pediatrica, leggere la ricerca documentata e ripetitiva di quello che è successo durante il periodo di lockdown ai bambini-adolescenti in merito ai loro accessi in pronto soccorso, negli ambulatori dei pediatri di famiglia (PdF), nei diversi ambiti specialistici e per diverse patologie: da quelle più banali per arrivare ai casi oncologici. Alla fine il risultato è che a volte ci sono stati ritardi di diagnosi e di cura; in altre situazioni correlate all’infezione da COVID-19 si è riusciti a cavarsela abbastanza bene e con modelli di organizzazione anche innovativi.
In molti sostengono (anche se raramente scrivono in modo organico) che il sistema di cura pediatrico, così come strutturato, almeno in Italia (ma non solo), andrebbe ripensato, in quanto la diminuzione ad esempio degli accessi per codici bianchi nel PS pediatrici (con il corrispettivo negli ambulatori dei PdF) sarebbe indicatore in qualche modo di un eccesso di prestazioni, di una duplicazione delle domande e di risposte, a volte non consone in merito a presunti problemi di salute. In realtà di tutto questo ne sentiamo parlare da decenni, ma la prospettiva di cambiamento non si è mai intravista, in termini di idee concrete e di una complessiva progettualità che non può essere solo “organizzativa”, ma anche di contenuti. Perché si è creato il bisogno? Quanto è reale? Come deve essere inteso il sistema della “relazione” in ambito neonatologico, pediatrico e adolescenziale che è molto diverso da una comunicazione ed implementazione tecnologica che viene invocata da molti in questi giorni come la prospettiva lavorativa del futuro, anche in ambito sanitario? A riguardo bisognerebbe essere consapevoli del fatto che, pur a fronte delle molte potenzialità che la telemedicina potrà offrire, possono esistere delle disparità di cui bisognerebbe tenere conto e da subito e non strada facendo.
In ogni caso colpisce molto sentire che lo status ante non è giusto che ritorni e che, per evitare una assistenza non consona ai bisogni, sarà necessario fare un maggiore filtro, una selezione adeguata e più pertinente di quali bambini vedere, quali indirizzare con competenza a servizi di II o III livello. Questi cambiamenti saranno oggetto di una progettazione organizzativa, culturale e informativa congiunta a vari livelli nazionali oppure si farà riferimento ad uno spontaneismo locale o sarà oggetto di discussioni e magari trattative regionali? Ma cosa sarà da discutere e trattare nello specifico? Un diritto di ascolto maggiore e migliore dei bisogni o una organizzazione di competenze ridisegnate, ma sulla base di quali principi? Non sono domande facili a cui rispondere perché di fatto il bisogno che la pandemia ha forse fatto emergere con forza è l’assoluta necessità di una profonda riorganizzazione del sistema assistenziale basato più sulle carenze evidenti che su una concreta prospettiva di progettualità per farne fronte.
Parlare di rafforzare la medicina territoriale o ospedaliera trova in questo momento un riscontro che sembra essere con un’unica certezza: quella di rendere più salda l’emergenza-urgenza e di assumere personale grazie ai fondi (tanti!) disponibili; ma più personale a quale prospettiva complessiva di lavoro dovrebbe rispondere che vada oltre la copertura di note carenze di organico ospedaliere per coprire i turni di lavoro? A riguardo ci sono alcune idee che sono state avanzate, ma la complessiva visione sembra essere guidata più da logiche corporative che dal desiderio di mettersi a nudo.
Eppure c’è stato qualcosa, in una riflessione di agosto sui mesi passati, che emerge come programma forse concreto e realizzabile e che la pandemia ha reso visibile come possibile prospettiva. Riguarda l’assistenza integrata di quei bambini e di quelle famiglie con bisogni speciali o, detto in modo più semplice, che hanno bisogno di una continuità di cura. Sono i malati cronici, ma anche quelli che malati in senso stretto non sono, ma che hanno difficoltà di integrazione, di presa in carico, magari per piccoli o grandi problemi neurospichiatrici e/o riabilitativi. Sono anche i bambini e le famiglie che si trovano ad affrontare un percorso iniziale di diagnosi e magari di futura cura.
Sentire in questi momenti (e forse per la prima volta con dignità e visibilità) di una assistenza infermieristica che propone il principio cardine dell’Assistenza Fondata sulla Famiglia (AFF) (Family Centered Care, FCC nella formalizzazione del 2011), andando oltre la larga esperienza in ambito neonatologico, è come se si stesse colmando un vuoto da tutti percepito ma mai completamente riempito, in modo compiuto e riconosciuto. L’AFF è il supporto professionale fornito al bambino e alla famiglia attraverso un processo di coinvolgimento e partecipazione sostenuto da empowerment e negoziazione. Si condividono tra i familiari, il personale sanitario e socio-assistenziale responsabilità, scambi di informazioni bidirezionali, emozioni, preoccupazioni, obiettivi di cura da raggiungere. Ci si può chiedere quale sia la novità di queste parole che stanno banalmente in un progetto di necessaria buona resa assistenziale, dove ognuno deve svolgere la sua parte. Eppure nulla è scontato ed è noto che quello che manca è proprio la capacità di trovare professionalità in grado di rendere collaborativa la complessiva assistenza e attuativi i PDTA (qualora esistano), per non renderli di fatto, come a volte accade, carta straccia che mettiamo in mostra per difenderci da molte inadempienze.
L’infermiere “case manager” della cronicità è in grado di svolgere questo mestiere? Tutto sembra essere emerso in fase di pandemia da singole esperienze di pediatrie ospedaliere o comunitarie; ma la vera prospettiva concreta è quello di rendere il progetto AFF diffuso, capillare, integrativo nelle competenze tra ospedale e territorio (e in questo caso non sembrano parole vane), come un vero strumento di aiuto per la famiglia, per la complessiva organizzazione professionale del sistema. Una strada che si intravede e che va favorita, riconosciuta, resa professionale e soprattutto di alto profilo.
Vorrei essere ottimista per avere sperimentato di persona la forza propulsiva di questo possibile cambiamento. Il rischio è quello di vederlo su base volontaristica, o con ruoli di secondo livello e non centrali nell’assistenza. Al contrario la figura professionale dell’infermiere (che sia ospedaliera, di comunità o appartenente agli ambulatori aggregati dei PdF per aree territoriali) deve essere vista come di consulenza e con un ruolo a volte centrale e paritetico che potenzia le competenze familiari e dell’equipe di lavoro. Il mondo pediatrico non può perdere questa occasione, per essere se possibile forza propulsiva e di esempio verso altri ambiti di cura.
Il tempo in parte perduto sarà quindi quello che, come accade ancora in questi giorni di agosto, pensa e a vari livelli quasi esclusivamente al controllo della seconda ondata epidemica, occupandosi in prospettiva oltre che alle varie “procedure di sicurezza” (in continuo aggiornamento), all’acquisizione di personale, senza “nuove” e specifiche mansioni di indirizzo.
Il tempo guadagnato è quello che vive oltre l’emergenza, che intravede spazi nuovi culturali, filosofici ma anche di cura integrata molto concreti, non dando per scontato e assodato l’esistente. E per fare questo bisognerà pensare (con un po’ di fantasia) che possa esistere un comitato tecnico scientifico che già lavori, in parallelo con quello esistente per l’emergenza, per immaginare quello che un tempo di crisi ha sempre insegnato sugli aspetti migliorativi che ogni giorno si possono sperimentare. Per garantire credibilità è necessario modellare la direzione di marcia, ispirare una visione condivisa, sfidare lo status quo, mettere gli altri in grado di agire e incoraggiare lo spirito aggregativo di squadra, dove ciascun professionista si pone nella condizione virtuosa di dovere rendere conto.





STEFANO CAGLIANO
s.cagliano@mclink.it


Il periodo che stiamo vivendo con la pandemia COVID-19 è già storia. “Tutti i documenti col tempo si ‘storicizzano’ e costituiscono la memoria storica della nostra civiltà” si legge nelle pagine di “Emozioni virali”. L’evento COVID-19 somiglia proprio a una grande bottiglia che abbiamo imparato a riempire e svuotare nel tempo con cose diverse, prima solo con malattia, confusione, morte, disperazione, illusione curativa, poi, dopo qualche mese, con curabilità, guarigione, speranza nel vaccino. Prima, abbiamo dovuto fare i conti con la fantasia della natura e con le sorprese tragiche del nostro Dna, poi abbiamo tratto conforto dalle opportunità umane, comprese quelle manipolative del Dna e con la nostra incertezza.
Il fatto consolidato è che la pandemia COVID-19 è diventata la peggiore crisi di salute pubblica in un secolo, ma a fronte di questo non mancano le incertezze, come scriveva il BMJ il 22 luglio 2020: “La scienza a volte è descritta come una ricerca metodica e scrupolosa della verità e una buona politica come la traduzione di quelle verità basate sull’evidenza in azione. In tempi pre-pandemici, queste ipotesi erano valide a volte (anche se non sempre). Ma la complessità della scienza e del processo decisionale nel contesto di incertezza è stata messa a fuoco con precisione da questa pandemia.” Oggi lo scenario che abbiamo di fronte conosce problemi antichi e strumenti nuovi. Proviamo a guardarlo secondo prospettive diverse.
La prima, formidabile anche contro quest’infezione, è la lettura o l’aggiornamento professionale mediante la lettura di riviste o libri pregevoli. Riviste con articoli non solo sull’efficacia dei farmaci o sull’ultima notizia su un vaccino, informazioni spesso tutte da confermare, ma ricche anche di articoli di altro genere. La lettura non dovrebbe servire solo fornire informazioni o a costruire illusi e illusioni, ma a spiegare anche cosa fare pensando al domani, a indicare percorsi possibili legati a problemi più o meno attuali. Nei mesi scorsi, nel mercato dell’informazione c’è stato solo l’imbarazzo della scelta. Non sono mancati i trial delle terapie più diverse, ma sulle riviste sono state pubblicate riflessioni anche su modelli di previsione e probabilistici o a quella che Katharine Lawrence definiva sul BMJ l’empatia digitale o compassione digitale, un concetto correlato ma meno conosciuto. “Nel loro articolo Christopher Terry e Jeff Cains definiscono l’empatia digitale come “caratteristiche empatiche tradizionali come la preoccupazione e la cura per gli altri espresse attraverso comunicazioni mediate dal computer.”
Ma, come dicevo, accanto a questo genere di certezze, il cervello umano ha continuato a produrre le sue incertezze. E, come è stato detto, “man mano che l’esperienza COVID-19 di ogni Paese passa da un grave disastro nazionale a una crisi politica cronica, tutti noi – medici, scienziati, responsabili politici e cittadini – dobbiamo abbandonare l’immaginazione che le incertezze possano essere risolte. Potrebbero non esserlo mai. Questo perché COVID-19 è, per eccellenza, un problema complesso in un sistema complesso.” In un articolo di Nature si legge che “Jeremy Konyndyk, del Center for Global Development di Washington DC, afferma che i membri della comunità della biosicurezza si sono spesso concentrati sui vaccini, piuttosto che sulle complesse carenze sistemiche del sistema sanitario pubblico. (…) Ma un’attenzione insufficiente è dedicata allo sfruttamento e al coordinamento di operatori sanitari e risorse biomediche sufficienti per testare in modo efficiente le persone (…). Questo è precisamente l’enigma in cui si trovano gli Stati Uniti in questo momento”.
D’altra parte, e questa è la seconda prospettiva, “il COVID-19 è altamente trasmissibile, causa una mortalità relativamente alta, in particolare nelle popolazioni che invecchiano, ed è emerso a livello globale nel nostro mondo altamente interconnesso. Gli sforzi a breve termine per sviluppare rapidamente vaccini e terapie salvavita sono della massima importanza. (…) Secondo le Nazioni Unite, le proiezioni indicano che entro il 2050 ci saranno più del doppio delle persone sopra i 65 anni rispetto ai bambini sotto i 5 anni, e il numero di persone di età pari o superiore a 65 anni a livello globale supererà il numero delle persone dai 15 ai 24 anni di età”. Questo invecchiamento globale aumenta drasticamente il peso delle malattie non trasmissibili ed espone la nostra vulnerabilità alle malattie infettive. In pratica “si prevede che il numero di decessi legati alla resistenza agli antimicrobici raggiungerà i 10 milioni all’anno entro il 2050, superando la mortalità per cancro. (…) La protezione delle popolazioni che invecchiano sarà una questione centrale, se non la principale, per mantenere la salute e la biosicurezza globale”.
In questa prospettiva, e siamo al terzo punto, giocheranno un ruolo sempre più importante i vaccini. In un articolo su Nature del 18 marzo scorso Ewen Callaway suggerisce cinque domande chiave che dovrebbero precedere l’inizio delle sperimentazioni, ovvero: Le persone sviluppano l’immunità? Se gli esseri umani sviluppano l’immunità, quanto tempo dura? Che tipo di risposta immunitaria dovrebbero cercare gli sviluppatori di vaccini? Come sappiamo se è probabile che un vaccino funzioni? Sarà sicuro? Quattro mesi dopo, il 3 luglio scorso, lo stesso Callaway con diversi coautori firmava un altro articolo con altre cinque domande chiave: perché le persone rispondono in modo così diverso? Qual è la natura dell’immunità e quanto dura? Il virus ha sviluppato mutazioni preoccupanti? Quanto bene funzionerà un vaccino? Qual è l’origine del virus?
Insomma, abbiamo fatto molta strada ma non ne abbiamo fatta ancora abbastanza. Abbiamo camminato molto ma meno di quanto noi pensassimo sicché oggi attorno al totem vaccini girano, più o meno affannosamente, interrogativi relativi all’efficacia, ai costi, alla sicurezza e all’accessibilità. C’è infine il problema della diffidenza, ancora molto diffusa anche nei paesi alfabetizzati. Come ha raccontato Katrina Megget sul BMJ, “ci si potrebbe aspettare che tutti dicano di volere un vaccino durante una pandemia, ma non è quello che ha scoperto uno studio su 1000 persone a New York nel 24-26 aprile.” Scott Ratzan, docente presso la CUNY Graduate School of Public Health and Health Policy di New York ha riferito che solo il 59% degli intervistati ha dichiarato che avrebbe ricevuto un vaccino e solo il 53% lo avrebbe dato ai propri figli. Le conclusioni della Megget sono state che “il movimento anti-vaccinazione renderà il COVID-19 più difficile da tenere sotto controllo.” Ma nel suo articolo, tutto da leggere, chiama in causa altre voci: “Facebook ha dichiarato al BMJ che rifiuta gli annunci che includono informazioni errate sui vaccini e ha rimosso centinaia di migliaia di post contenenti informazioni errate e dannose relative a COVID-19 e un potenziale vaccino, indirizzando anche le persone ad articoli con informazioni accurate.” Eppure, nonostante gli sforzi concertati delle società di social media, l’OMS ha “rilevato il sentimento del vaccino anti-COVID-19 nei social media”, afferma Katherine O’Brien, direttrice del dipartimento di immunizzazione, vaccini e biologici dell’OMS. “Non abbiamo ancora un vaccino e già ci si esprime contro la vaccinazione.” In conclusione, sottolinea ancora Scott Ratzan, “la pandemia sta mostrando le nostre vulnerabilità quando si tratta di vaccini e di esitazione sui vaccini e solleva la questione di come proteggiamo per future pandemie. Ottenere una comunicazione corretta è fondamentale.”
In un articolo ancora attuale del 1999 del Drug and Therapeutics Bulletin uno spazio era stato riservato alla domanda: “la possibilità di scegliere può rendere i pazienti più liberi?”. In questo caso, l’autrice Marian Barnes partiva dalla premessa non originale che “è opinione comune che, se ricevessero informazioni obiettive sulle opzioni disponibili, i pazienti sarebbero in grado di scegliere razionalmente il trattamento cui sottoporsi. Ma è troppo semplice pensare che dare loro queste informazioni sia tutto ciò che serve per aiutarli a decidere. In realtà – aggiungeva – il modo in cui la gente capisce le informazioni e sceglie è influenzato da molti fattori complessi come le caratteristiche della persona, individuali, psicologiche, emotive e sociali, assieme all’esperienza che ognuno ha della malattia”.
In un quadro come l’attuale, dove fanno gola denaro e risultato elettorale, non solo in Italia, occorre pensare a gestire l’incertezza e una comunicazione corretta. Occorre sapere ciò che si fa, conoscere i risultati. Tutti i giorni, ogni momento, contro il COVID-19 lavorano medici e ricercatori per affrontare le sfide sollevate dalla malattia. Ma i risultati della ricerca sono evidenti. Dubbio e incertezze non hanno annullato ciò che viene fatto ogni giorno. Le illusioni dei camici bianchi sono le migliori incubatrici delle delusioni dei malati. L’incanto appartiene al mondo della favola, non a quello della lotta alla sofferenza.

Gestire l’incertezza in una pandemia: cinque semplici regole 
La maggior parte dei dati sarà imperfetta o incompleta. Sii onesto e trasparente su questo.
Per alcune domande, la certezza potrebbe non essere mai raggiunta. Considera attentamente se aspettare le prove definitive o agire in base alle prove che hai.
Dai un senso a situazioni complesse riconoscendo la complessità, ammettendo l’ignoranza, esplorando i paradossi e riflettendo collettivamente.
Persone diverse (e diversi gruppi di stakeholder) interpretano i dati in modo diverso. La deliberazione tra le parti interessate può generare soluzioni multiformi.
Interventi pragmatici, attentamente osservati e confrontati in contesti reali, possono generare dati utili per integrare i risultati di studi controllati e altre forme di evidenza.

SILVIA MASCHI
s.maschi@ausl.mo.it


“Mamma, quanto manca per andare in montagna?”. Il conto alla rovescia quotidiano di mio figlio Carlo, in trepida attesa delle sue prime vacanze in famiglia di quest’anno, è terminato domenica 16 agosto: giorno della partenza per una settimana in Val di Fassa.
Come tanti italiani, anche noi abbiamo preferito la vacanza in montagna al solito mare; nel nostro caso, l’appuntamento in albergo, in Romagna, a giugno con i nonni è stato glissato.
Regola n.1 della nostra vacanza al fresco: a casa il tablet, in valigia carte da gioco, libri, fogli, colori e giochi di società per le giornate di pioggia o semplicemente come passatempo dopo il pranzo pic-nic all’aria aperta.
Regola n.2: in vacanza si cammina, quindi quest’anno per la prima volta l’emozione di avere ognuno il proprio paio di scarponcini, il proprio zaino, la propria borraccia, il proprio k-way e la propria barretta di cioccolato: grandi e piccoli, senza distinzione, ognuno con la propria autonomia (non male!).
In auto, durante il viaggio verso la meta tanto ambita, regnava gioia, voglia di “staccare la spina” e godersi il tanto meritato riposo dopo mesi colmi di fatica lavorativa, di smart-working, di gestione della Didattica a Distanza di nostra figlia Cecilia in quarta elementare con i bisogni di nostro figlio Carlo (mezzano) con la scuola materna chiusa, ma al contempo da affiancare durante le ore di terapia logopedica via Skype (e la neuropsicomotricità in famiglia) per far sì che il suo disturbo del linguaggio grave venisse comunque considerato e trattato per non retrocedere nei miglioramenti.
Dopo mesi complicati finalmente potevamo canticchiare la colonna sonora del nostro viaggio di andata che ha spaziato da Where rainbows never die degli The Steeldrivers, a Best part of me di Ed Sheeran alla compilation degli Abba (con mia figlia, prima di partire, abbiamo visto in TV i musical Mamma Mia 1 e 2 e ci siamo appassionate) … così da arrivare a fare colazione con una fetta di sacher a Moena con ancora in testa il ritornello di “Waterloo”!
La scelta dell’appartamento e non dell’albergo l’avevamo fatta insieme ai nostri amici, compagni di avventura, indipendentemente dalla COVID-19, già nel 2019. Chiaro è che quest’anno si è rivelata una scelta ancora più vincente, soprattutto per i piccoli che sono stati maggiormente liberi sia come spazi che con l’uso della mascherina.
Il pomeriggio dell’arrivo i bimbi hanno fatto albering facendo amicizia con altri coetanei del posto, a contatto con la natura, fingendo di essere come “scoiattoli volanti”.
Alla sera Carlo era così felice che ci ha chiesto di fare un brindisi: durante la cena ci siamo trovati tutti e quattro con i nostri bicchieri pieni, alzati, pronti ad assaporare la nostra vacanza in famiglia.
Le giornate sono trascorse tra panorami mozzafiato e percorsi adatti a tutte le età.
Questi mesi di lockdown, di tempo sospeso, mi hanno insegnato che il segreto è godersi il presente e ammirare ciò che ci circonda rallentando. Pertanto la scelta è stata quella di scattare più foto con gli occhi che con il cellulare perché i miei figli reclamano il fatto che io stia troppo tempo sul telefono e poco prestando loro quell’attenzione vera che dà il senso di accoglienza, con l’intento di perseverare anche una volta rientrati a casa.



Il tema da passeggiata, spesso ricorrente tra mamme era l’argomento tanto atteso quanto incerto: la riapertura della scuola, il 14 settembre.
Questioni aperte: orari di ingresso, spazi a disposizione, come gestire i soliti malanni stagionali dei nostri figli, convivendo con la COVID-19 tante domande e poche risposte.
Una sera, passando davanti al parchetto giochi del paese, mio marito ed io abbiamo per un attimo avuto la sensazione di essere al di fuori di una vetrina. All’interno bimbi che giocavano, con a fianco genitori in mascherina: ci ha sfiorato la consapevolezza del periodo che stiamo vivendo del futuro che avranno ai nostri figli.
I pensieri sono scivolati via dopo poco, preferendo al parco affollato, un ruscello dove i bimbi si sono divertiti ad immergere i piedi (acqua cristallina, ma gelata per me e non per loro), a tirare sassi, a far finta di essere pescatori, a trovare “pepite d’oro”. Una bimba vedendoli si è avvicinata per giocare, poi ha incrociato lo sguardo della sua mamma che le ha ricordato di mantenere la distanza e così lei è rimasta da sola.
La camminata da ricordare è stata quella che da Passo Rolle ci ha condotto alla Baita Segantini, circondata dalle Pale di San Martino. Panorama strepitoso, soddisfazione nel raggiungere una meta così in quota, per la prima volta con i miei figli. Là non resisto e pubblico tutta soddisfatta la foto sul mio stato di Whatsapp. Dopo poco vengo contattata da una mia amica mirandolese che mi chiede da che parte del Rifugio ci trovavamo. Capisco immediatamente. Senza neanche metterci d’accordo, eravamo nello stesso posto con entrambe le famiglie.
I bimbi erano felicissimi di aver trovato amici compaesani e così tra l’erba è stato piacevole sentire le loro risate tra una partita di briscola e l’altra, a 2.200 metri di altitudine.
Al pomeriggio abbiamo deciso sulla strada del rientro di fermarci al Parco Naturale di Paneveggio per ammirare i cervi, gli alberi secolari e gli abeti rossi di Stradivari, sopravvissuti al maltempo che si è abbattuto nel 2018 in quella zona (e non solo).
Suggestivo ammirare quelle radici, danno un senso di maestosità e di fermezza che mi attira.
Proseguendo con la passione per i Passi, il giorno seguente, ci eravamo dati come obiettivo il Sella in cui avremmo dovuto parcheggiare per raggiungere a piedi il Rifugio Comici. Non avevamo però tenuto conto dell’affollamento di auto, di ciclisti e motociclisti irrequieti. Situazione poco compatibile con chi, come noi, pensava di trascorrere una giornata tranquilla. Pertanto abbiamo rinunciato al nostro obiettivo, trovando una valida alternativa: infilarci nel bosco e fermarci per fare un pic nic silenzioso di fronte al Pordoi.
Tra una fetta di speck e l’altra e ammirando il panorama che ci circondava, mi sono accorta dagli occhi di mia figlia che era imminente per lei l’inizio di un bel raffreddore.
E così è stato, con qualche linea di febbre, l’aria di montagna e il sole avevano fatto il loro effetto.
La guarigione già il giorno dopo, quindi avanti tutta (per fortuna quarantena evitata!).
La vacanza stava volgendo al termine e tra le ultime passeggiate (anche di 19 km), in cui però lungo il tragitto abbiamo notato tante mascherine abbandonate, pattumi strapieni, poco rispetto per la natura, e gli ultimi ritrovi di gioco ad albering, con percorsi da veri coraggiosi, più difficili di quelli svolti nella prima giornata di arrivo, si sono iniziate a richiudere le valigie e a salutare i nostri compagni di viaggio.
In macchina, scendendo i tornanti, la colonna sonora che risuonava nelle nostre menti non era più musicale, ma era l’insieme di tutti i ricordi di queste giornate trascorse insieme: immersi nella natura, in compagnia di amici, in sintonia con i figli, ricaricando le “batterie” per l’autunno prossimo.
La radio sì parla, una voce ci informa che i contagi COVID in Italia stanno aumentando, ma noi la nostra vacanza in famiglia (adattata al momento che stiamo tutti vivendo) abbiamo avuto la fortuna comunque di viverla. Ci sentiamo come se avessimo vinto anche noi la battaglia di… Waterloo!

P.S. Il pensiero rivolto ai miei colleghi della farmacia ospedaliera di Mirandola non è mai mancato durante la settimana. I mesi COVID sono stati molto intensi, ma ci hanno unito maggiormente.

GIANNI TOGNONI
giantogn@gmail.com


Difficile, o forse più che altro strano, scrivere per me di ‘vacanze’. Non sono mai riuscito, per le vicende delle tante vite che mi sono trovato a vivere, a fare delle vacanze un appuntamento da attendere e rispettare nel corso degli anni. Tante passeggiate, escursioni soprattutto in montagna, contratte in fini settimane o prendendosi giorni casuali. Ma delle vacanze porto solo, come una parte di me molto bella, sfumata nel tempo, ma non nella intensità, il ricordo di quelle in età vicine fino a quelle delle fotografie, verso la fine degli anni ’40 ed i primi anni ’50: tempi di dopo guerra, trasferte nelle prime topolino, una famiglia di 5, verso posti a costi ridotti, sull’Adriatico o alla scoperta delle Dolomiti, o delle valli del Monte Rosa. Da allora non ho più ricordi di vacanze: lungo gli anni il mio quotidiano si è trasformato in un sempre più frequente ‘uscire’ per esplorare mondi altri, per curiosità e sempre più per impegni dell’una o dell’altra delle mie professioni, soprattutto per incontrare persone o realtà che corrispondevano ad interrogativi di esperienze sperimentali di modi di vita. E non c’è stato più bisogno o desiderio di vacanze. I mondi altri, i più diversi, hanno preso il posto delle vacanze. Ed hanno riempito i miei calendari, le mie attese. Il lockdown non mi ha frustrato per l’immobilità. Il mondo ‘altro’ inaugurato dal COVID-19 è stato abitato da altri interrogativi, per i quali le risposte sono tutte da cercare. Con o senza vacanze: con tutta la ricchezza, e il disincanto dei miei tanti anni.