Pratica medica e globalizzazione della salute pediatrica


Mi capita di scrivere questa prefazione in un momento particolare, in cui il nuovo coronavirus conquista le prime pagine di tutti i giornali e l’apertura dei notiziari televisivi e radiofonici ormai da tempo. Proprio ora apprendo che in alcune regioni si sta proponendo di impedire l’accesso scolastico ai bambini – anche asintomatici – che rientrano da qualsiasi regione della Cina. Il nuovo virus è diventato materia di scontro politico e l’evidenza scientifica non è la benvenuta nel dibattito in corso. Fra l’altro, mentre scrivo, sembra proprio che i bambini siano nettamente a minor rischio di complicazioni gravi. Non posso dimostrarlo, ma ho l’impressione che gli ambienti culturali più sensibili all’allarmismo per il coronavirus, e più pronti ad accettare qualsiasi teoria complottista sull’origine dello stesso, siano anche quelli dove, da un lato, è diffusa la convinzione che gli immigrati (bambini e adulti) “portino malattie”, e dall’altro proliferano le idee «no vax».

Anche per questo mi fa particolarmente piacere presentare un libro scritto da un gruppo di pediatri che conosco e stimo da tempo per il loro costante e concreto impegno nel diffondere una pratica medica basata sull’evidenza e libera da ogni condizionamento, sia culturale sia economico. Questo libro è uno strumento prezioso per il pediatra italiano che ormai da anni vede nel proprio ambulatorio piccoli pazienti provenienti da Paesi “esotici” e che probabilmente non ha ricevuto nel corso dei suoi studi nozioni e strumenti sufficienti ad affrontare le sfide che ne derivano. Il libro offre una trattazione delle malattie «tropicali» (il motivo delle virgolette sarà chiaro al lettore una volta addentratosi nell’opera) e infettive che il pediatra può incontrare nel proprio ambulatorio o pronto soccorso, puntualmente documentata e arricchita da una bibliografia spesso molto aggiornata. Le malattie, dalla malaria alle arbovirosi alle principali patologie parassitarie (intestinali e non), sono trattate con un approccio pratico, che fornisce al pediatra i principali strumenti per affrontarle in modo corretto quando si presentano con sintomi e segni clinici, ma anche per sospettarle, o cercarle attivamente con lo screening, in piccoli pazienti magari asintomatici che provengono da Paesi a elevata endemia. Tuttavia l’opera è molto più ampia e affronta con approccio altrettanto valido malattie non trasmissibili come per esempio le «emoglobine insolite» (bellissimo titolo!) o i problemi psichici, alcuni dei quali legati a traumi psicofisici troppo frequentemente subiti da rifugiati e richiedenti asilo, in particolare – ma non solo – se transitati in Libia, molti dei quali sono minori non accompagnati. Non sono trascurati i problemi legati alle barriere linguistiche e culturali che devono essere necessariamente affrontate perché si possa stabilire un’efficace alleanza terapeutica. Gli autori poi ampliano doverosamente la prospettiva quando ci ricordano che quello che vediamo nei nostri ambulatori non è che una piccola finestra aperta sui Paesi a risorse limitate, che vivono la massima parte del fardello di morbi-mortalità delle poverty related diseases (una definizione sicuramente più corretta rispetto alla vecchia terminologia di “malattie tropicali”), quasi sempre, per tragico paradosso, con un accesso alle cure anche essenziali solo dietro pagamento.




Spero che il capitolo sul pediatra sul campo possa essere utile a un gran numero di colleghi: vi assicuro per storia personale che sono esperienze che ci arricchiscono molto di più del poco che umilmente possiamo apportare. Utilissimi i capitoli sulle vaccinazioni e sulla profilassi dei bambini che viaggiano, ricordando che spesso quelli che tornano con problemi clinici, a volte gravi, sono proprio bambini immigrati, o magari figli di immigrati nati nel nostro Paese, che ritornano in madrepatria per visitare parenti e amici (i cosiddetti VFR: Visiting Friends and Relatives). Sono i bambini a maggior rischio di contrarre la malaria e anche di morirne, tanto per fare un esempio, anche perché i genitori sono spesso abituati a considerare la malaria una patologia lieve, per loro esperienza personale in quanto soggetti «semi-immuni». Tuttavia, da un lato gli stessi adulti tendono a perdere progressivamente questa semi-immunità dopo un lungo periodo trascorso al di fuori delle aree endemiche, dall’altro, in ogni caso, i bambini nati in Italia sono naturalmente privi di qualsiasi protezione immunitaria. Nella medicina dei viaggi gli immigrati VFR sono appunto il gruppo a maggior rischio, nonché quello più difficile da raggiungere dai servizi di prevenzione. I pediatri nei propri ambulatori possono costituire un aiuto prezioso anche in questo senso.

Voglio concludere questa prefazione ritornando al tema “mediatico” accentuato oggi dal coronavirus, ieri da ebola, ieri oggi e domani dalla tubercolosi… ma gli immigrati portano malattie? (leggete il capitolo Immigrazione e globalizzazione: quali reali rischi infettivi). La mia risposta è sì. Stupiti? Mi spiego. Gli immigrati «portano» malattie nel senso che le portano spesso con sé, ma non le trasmettono a noi. I dati sulla tubercolosi, non solo in Italia ma in tutti i Paesi di immigrazione recente e non, mostrano chiaramente che le due curve di incidenza, quella della popolazione straniera (nel nostro caso in ascesa) e quella della popolazione autoctona (in costante discesa) sono assolutamente indipendenti l’una dall’altra. Quindi anche per una malattia evidentemente trasmissibile come la tubercolosi gli immigrati non rappresentano un rischio epidemiologico significativo per noi. Molte altre patologie non sono trasmissibili nemmeno in teoria, come le Neglected Tropical Diseases parassitarie quali la strongiloidosi o la schistosomiasi, ma per chi le “porta”, se non vengono adeguatamente diagnosticate e trattate, possono nel corso degli anni rappresentare un rischio anche mortale. Negli ultimi anni abbiamo osservato tassi di prevalenza della schistosomiasi nei rifugiati e richiedenti asilo (tra cui, come ho detto, molti minori) che superano, per alcune nazionalità, il 30%. Il nostro imperativo etico è “prenderci cura”, nel senso più ampio del termine, e non per proteggere “noi”, ma per fornire l’assistenza più adeguata a “loro”, per rispettare il nostro giuramento giovanile e anche la nostra Costituzione. Questo libro è un ausilio prezioso per prenderci cura di questi piccoli pazienti nel modo più adeguato possibile; tutta la mia ammirazione va agli autori che hanno evidentemente dedicato a questo lavoro tanto tempo, tanta energia, tanta competenza e tanta passione.


Zeno Bisoffi

Dipartimento di Malattie infettive-tropicali e microbiologia (DITM), IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Negrar di Valpolicella (Verona)

zeno.bisoffi@sacrocuore.it