Disabilità e relazioni sociali

Una recensione in forma di dialogo


Questo testo è una recensione, sotto forma di dialogo, tra Antonio Bianchi (AB) e Matteo Schianchi (MS) attorno al testo di quest’ultimo1.


AB: Ho individuato un lungo elenco di parole che ricorrono nel testo. La più frequente è “inferiorizzare”. Di questo concetto ne individui le forme anche meno evidenti, la condiscendenza. Leggendo, mi viene da pensare che insisti come se non ti fidassi che il lettore sia disposto ad accogliere la questione. In effetti tendi ad evidenziare una realtà che vuoi fare emergere e denunciare al contempo. A tratti si coglie una tua durezza mentre lo fai; poi ti sposti su registri riflessivi, proponi. Come superare questa abitudine così stratificata, che non necessita di parole?


MS: Non mi sorprende che sia il termine più ricorrente, anche se non è frutto di una volontà esplicita. In effetti è un concetto a cui sono molto legato e che introduco con sempre più forza quando scrivo e ragiono di disabilità. È in effetti il fulcro, secondo me, di qualsiasi modo di pensare e considerare la disabilità, di relazionarcisi. Dal profondo di noi stessi, e da sempre, pensiamo, tutti, che la disabilità sia una condizione umana e sociale inferiore. Inutile nascondercelo. Modificare il nostro rapporto con la disabilità implica affrontare seriamente la questione che non può essere risolta né per principio, né per legge, né con i migliori sentimenti possibili. Tutte queste dimensioni sono necessarie, ma sono del tutto insufficienti. Il nostro modo di pensare e percepire la disabilità, di rapportarsi direttamente con le persone, è spesso innestato su forme di inferiorizzazione, anche inconsapevoli, ma non meno attive. È un dato delle relazioni sociali che produce continuamente scredito e l’effetto più evidente di un altro concetto a cui sono molto legato (quello di violenza simbolica) di cui credo mi chiederai in seguito. Più le condizioni di disabilità sono complesse, più le nostre paure aumentano, più ci sentiamo “fuori posto” poiché saltano le ordinarie modalità di rapportarci alle persone, comunicarci, pensarle nella quotidianità. Allora cosa facciamo? Cerchiamo di ristabilire un ordine, di ricomporre un’ordinarietà, ma in questo modo costruiamo gerarchie, inferiorizziamo. Lo hai notato bene, per me è una dinamica che sta nelle cose.


AB: Nel tuo testo consideri la biografia come elemento necessario per definire qualsiasi azione educativa e sociale. Tuttavia, sembra una dimensione poco sviluppata. Come si costruisce, come si racconta, questa biografia? Come si coinvolge la persona con disabilità che ha maggiore necessità di supporto? Certo è complesso dare parola supportando per quello che serve, ma evitando di essere accondiscendente, di ferire l’alterità. Stare sul sottile crinale è una sfida mai risolta. Tu come la affronti? Come pensi possa essere affrontata?


MS: Il fatto che sia poco affrontata è legata a due aspetti. Il primo riguarda la natura del testo. Questo libro nasce dall’idea di fornire a chi si occupa di disabilità (studenti in formazione, docenti, educatori, operatori, familiari e persone con disabilità stesse) alcuni temi e concetti su cui lavoro da anni, secondo me molto importanti, per affrontare questo tema, ma davvero poco presenti nei testi sui cui ci si forma, e anche nella letteratura accademica. Ho cercato di fornire, in modo sintetico, alcuni elementi utili a comprendere la disabilità nelle sue dinamiche più profonde. Qualcuno, che mi rimprovera bonariamente la mia durezza, mi dice che ho colpito il bersaglio. La seconda ragione è che per affrontare la biografia bisogna parlare di una biografia vera e propria. Non lo si può fare solo in teoria, soprattutto quando ci si riferisce a persone che hanno bisogno di maggior supporto, che faticano a raccontarsi e di cui è più complicato ricostruire la biografia che, per definizione, è fatta di numerose dimensioni non solo fattuali, ma legate alle possibilità, alle aspettative, all’identità, ai desideri e agli intenti, in gran parte inconsapevoli, che hanno tutte le persone. In un altro testo2 affronto più compiutamente la relazione tra biografia e disabilità sul piano teorico e attraverso la ricostruzione di alcune biografie di personaggi storici. La dimensione storica è stata per me un terreno di prova teorico e pratico con cui confrontarmi e per affermare la necessità di considerare le biografie. In questo testo intendevo affermare il principio che ogni persona, anche quella con una disabilità complessa, ha una propria biografia. È necessario conoscerla, è importante che i servizi, la scuola e tutte le situazioni che incrociano le persone con disabilità considerino e affrontino questo aspetto, che è la vita stessa delle persone. Diversamente, concetti e dispositivi come il “progetto di vita” restano gusci vuoti. Riconoscere la biografia dell’altro, ricostruirla, anche col contributo stesso delle persone con disabilità complesse e che faticano ad autorappresentarsi è il primo passaggio, e il più radicale, per cominciare ad opporci a quelle dinamiche di inferiorizzazione di cui si diceva.


AB: Mi aspettavo di trovare con maggiore frequenza il concetto di dialogo, di dialogico. Invece l’ho trovato una sola volta. Proprio a partire dal titolo, mi sembra che la relazione sia strettamente intrecciata al dialogo. Eppure, questa dimensione, sviluppata ad esempio da Arnkil e Seikkula3 con i loro dialoghi aperti e dialoghi sul futuro, ha poco spazio nel tuo argomentare. A me sembra il passaggio importante dentro le risposte sociali per la vita delle persone con disabilità. Lo spazio paritario di confronto dove possano emergere aspirazioni e possibilità; sociali nel loro costruirsi, non solo aspirazioni individualiste. Tu cosa ne pensi di queste costruzioni polifoniche? Ne leggi una possibilità concreta oppure il costrutto è fragile?


MS: Uno dei miei maestri, lo storico Giovanni Levi, diceva sempre che non solo si scrive sempre per qualcuno, ma anche contro qualcuno. È vero. In questo caso i miei nemici sono le persone che si occupano di disabilità affermando principi, modelli e paradigmi (del resto nell’introduzione questo mio approccio è chiaro e non si nasconde troppo) senza andarci in fondo, stando sul dichiarativo e sul formale, cose che sono molto lontane dalle esistenze, se vuoi le biografie, delle persone con disabilità. Troppo spesso sento discorsi e leggo cose che stanno su questi piani che a mio avviso restano poco analitici. Avevo la necessità di andare più in profondità e denunciare il fatto che se si sta alla superficie le cose cambiano poco. Seguendo questa volontà, forse sono stato poco dialogico. Conosco poco gli autori a cui ti riferisci. Mi sembra però necessario e prioritario che si costruiscano forme di dialogo, di ascolto, di confronto tra le persone, anche quelle in situazioni più complesse. Non è facile, ma non lo si fa quasi mai. Ultimamente mi sono trovato in più occasioni a confrontarmi con persone con disabilità: lo scambio si è trasformato in monologhi; il dialogo era nascosto solo dietro all’espressione di sé, necessaria ma che, come dici anche tu, rischia di sfociare nell’individualismo. Io credo che sia necessario e che sia anche difficile, ma se non ci proviamo mai…


AB: Parli una sola volta della comunicazione aumentativa alternativa (CAA) e indichi che spesso è fraintesa come sola espressione di bisogni primari. Tra l’altro scrivi “aumentata” invece di “aumentativa”. C’è un po’ di delusione nel cogliere questa incuria. Certo il tuo libro non è un manuale con la disamina degli strumenti. Mi sembra tuttavia un terreno in cui il tema dei libri in simboli si pone come investimento sull’adultità delle persone, come possibilità di accedere alla cultura, di partecipare allo spazio di confronto, ai significati lì presenti. Allo scambio che lì si gioca. Ma forse è un terreno che non ti è familiare.


MS: Hai ragione, essendo tu un esperto in materia. L’errore è un refuso, e me ne scuso. Mentre è certamente vero che questo campo non mi è familiare. Mi sembrava necessario introdurre questo tipo di comunicazione per dire che esiste (non tutti la conoscono) e per indicare, anche se in breve, le sue potenzialità più ampie. In effetti, e qui forse cercavo ancora di togliermi qualche sassolino dalla scarpa, mi sembra spesso di leggere discorsi, anche su questo tema, che affrontano la cosa in modo molto tecnico e banale. Invece mi sembra necessario spostarsi su un terreno molto più profondo, poiché gli strumenti comunicativi, i libri, i messaggi non sono solo strumenti di relazione, ma sono la vita stessa delle persone. Ecco, forse questo è uno di quei terreni attraverso cui si giocano le biografie, l’accesso ad una propria identità, alla formazione di una propria cultura. È davvero necessario affrontare queste dimensioni. Però, al netto del fatto che mi muovo su un campo che non è mio, a parte te, ho raramente sentito discorsi che mi attivassero, mi coinvolgessero, al di fuori della mera dimensione tecnica. Ecco, comunicare, leggere, non è un fatto tecnico.


AB: Il tema del continuo e necessario riconsiderare la storia delle persone, per poter accompagnare, emerge con semplicità dal tuo dire. Si è condotti a considerarlo ovvio, come in effetti è. Qui non sottolinei in negativo ciò che invece accade costantemente, il fatto che lo sguardo sulle persone con disabilità sia sempre cristallizzato, il fatto che l’esistenza di alcune persone con disabilità si configuri, come è stato scritto, come una lunga autostrada senza vie d’uscita. Colgo in questa modalità una scelta di interlocuzione con il lettore che mi sembra interessante. Colgo bene la tua intenzione?


MS: Finalmente, oltre ad esprimere alcuni concetti per me decisivi, a farlo in modo anche piuttosto duro, per evitare gli annacquamenti contro cui mi scaglio, si percepisce anche qualcosa che fa parte del mio modo di argomentare e di essere, in cui l’interlocuzione con l’altro è decisiva. In effetti, dietro al mio testo c’è un’idea fondamentale: smettiamo di raccontarcela, di essere formali e dichiarativi perché in gioco ci sono le vite delle persone, conoscerle, mettersi in dialogo con loro (anche quando è difficile) è possibile, ma dobbiamo metterci in cammino per farlo, seriamente. È un terreno molto complesso, ma è l’unico che abbiamo e dobbiamo costruirlo insieme. Diversamente c’è solo spazio per cose formali, in cui la vita delle persone è sempre sacrificata.


AB: Nel tuo libro non temi di problematizzare parole sacre. Inclusione, la stessa convenzione. Poni domande con ingenuità fanciullesca. La vita si può progettare? È uno sguardo libero, che non ha niente da difendere. E può porre tutte le domande, anche quelle che mettono in crisi le costruzioni sul versante dei diritti. E fa bene sentirsi interrogati anche nelle proprie credenze più care. Ciò dovrebbe accadere singolarmente e collettivamente, nello spazio associativo, senza immediatamente sentirsi di correre il rischio sulle possibili conseguenze operative che imbrigliano il confronto e definiscono i fronti. Questo elemento credo debba essere messo al servizio per un dialogo che manca. Per avere uno spazio di espressione e discernimento dove sia possibile guardare le cose da più punti di vista senza necessariamente sposarli.


MS: In occasione di una presentazione del libro mi è stata posta una questione simile in modo un po’ polemico: “Allora, Schianchi, il modello sociale no, la Convenzione Onu ha dei difetti, l’ICF ha dei limiti… dove vuoi andare a parare?”. L’unica libertà che ho, e me la tengo stretta, è di analizzare in modo critico (nel limite delle mie competenze) la realtà e gli strumenti che ci diamo per intervenirci. La mia posizione è intellettualmente e socialmente laica, non ho ortodossie da sostenere e in cui mi riconosco completamente. Gli strumenti, le teorie, le dichiarazioni mi interessano (e mi piace cercare di capire sempre la loro storia, le logiche che li sottendono, ecc.) ma, appunto, non le sposo. Cerco di guardarle né come strumenti tecnici né come vessilli di principi e di ideologie. Mi interessano nella misura in cui sono capaci di affrontare, nel pensiero e nella pratica, il più grande scoglio che pone la disabilità, cioè l’inferiorizzazione di cui si diceva prima. Mi fa allora piacere questa tua osservazione poiché trovo che quello di un confronto su terreni complessi e scivolosi sia proprio quello che manca. Credo sia necessario spostarsi su questi orizzonti senza sentirsi immediatamente presi nella trappola degli schieramenti dell’allora cosa facciamo? I temi di cui ci occupiamo sono complicati, e alcune situazioni sono davvero complesse. La quotidianità ci propone spesso vicoli obbligati e soluzioni specifiche. Siamo capaci di pensare, immaginare altro? Vogliamo confrontarci senza cadere nelle trappole dell’individualismo, che è proprio ciò che non funziona nelle situazioni più complesse?


AB: A proposito di stigma percorri i sentieri che definiscono questo atteggiamento a partire dalla sua dimensione relazionale. Ne individui le origini appellandoti a Goffman e a letture anche psicanalitiche che io non ho frequentato, come quando parli del perturbante. Soprattutto sezioni con spietatezza alcune costruzioni che sono state sviluppate come risposta all’esistenza dello stigma, il particolare nel modello sociale della disabilità. Ma è un sezionare per guardare dentro con maggiore conoscenza, non per delegittimare a priori. Difendi la chiave di lettura dello stigma dalla necessità pervasiva di individuare pratiche, sguardi, relazioni dettati dall’abilismo. Poni la necessità di combattere e anticipare lo stigma, ma sottolinei anche l’esistenza di dinamiche identitarie, che si nascondono o che si evidenziano. Individui una serie di oscillazioni in cui siamo immersi, che descrivi senza avvalorare una scelta. È un effetto voluto?


MS: Parto dal fondo di questa domanda che mette molta carne al fuoco. Sì, è un effetto voluto. Nella natura “didattica” del testo (fornire alcuni concetti chiave a chi si interessa e si occupa di disabilità), volevo semplicemente enunciare la presenza di queste contraddizioni in cui siamo continuamente immersi. Volevo fare emergere che esistono senza dare una soluzione “chiavi in mano”. Al testo di Goffman4 sullo stigma devo molto: il fatto di essermi occupato di disabilità, di fare ricerca e insegnare in questo campo. Ciò non significa che ne faccia una bibbia (tanto qui e nel citato Debito simbolico dico spesso che l’analisi di Goffman – che risale a sessant’anni fa – ha alcuni limiti da cui parto per costruire il mio pensiero). Detto questo, e fatte salve alcune critiche formulate a Goffman, non solo leggerlo è per me sempre una ricchezza (tutte le citazioni di situazioni in cui si trovano le persone con disabilità sono un campionario che chiunque dovrebbe conoscere), ma alcune critiche mi sembrano poco pertinenti. Su alcuni limiti di alcune versioni del modello sociale della disabilità si è pronunciato meglio di me Shakespeare5. È chiaro che mi muovo in una dimensione completamente sociale (il titolo lo dice), ma alcune letture sociali mi sembrano a miccia corta. Ormai sembra non si possa più parlare di disabilità senza infarcire i discorsi e le analisi col concetto di abilismo. A me sembra un concetto molto limitante, che funziona solo in alcune situazioni. In quelle più complesse scovare l’abilismo è più complesso, anche se esistono, continuamente, modelli sociali e culturali che non contemplano la diversità dell’altro. Recentemente, per rispondere ad una studentessa che continuava ad adottare il concetto di abilismo, ho detto che denunciare l’abilismo imperante è come dire che il mondo fa schifo. D’accordo. E poi? Ecco, secondo me, i concetti e le parole, non solo devono descrivere e farci accedere alla realtà, ma non devono diventare degli slogan che, come spesso accade, rischiano anche di semplificarla la realtà. E ciò che sta sotto alle cosiddette dinamiche abiliste è molto più complesso di quanto non si possa denunciare gridando all’abilismo.


AB: Affronti il concetto di liminalità. Né di qua né di là. Così dipingi la condizione della persona con disabilità. Non disumana, ma neppure completamente umana. Questa indeterminatezza per la verità, pensavo leggendo, è dell’essere umano. Si cerca di afferrare con nettezza i contorni della sua storia, l’inizio e la fine. Si è colti da vertigine e tutto sembra perdere senso. E allora ci si rifugia nel mentre. Nelle occupazioni dell’oggi. Esistere è più che vivere, dici. Eppure, una certa inconsapevolezza sembra necessaria per poter continuare a camminare, a esistere. Qualcuno dice che una certa indeterminatezza è divenuta ormai sistemica. Se per tutti la vita è più “liquida” allora la liquidità della vita delle persone con disabilità non è poi così discriminante. Ma quanto è distante dalla classica indeterminatezza chi, per tutta la vita, è tenuto nel limbo? È una concettualizzazione chiave del tuo libro. Vuoi dire qualche parola in più?


MS: Il concetto di liminalità è stato introdotto negli studi sulla disabilità da Murphy in un testo molto bello6. Mi sembra un concetto importante, che volevo far conoscere, pur riconoscendone alcuni limiti (anche da qui sono partite le mie riflessioni del Debito simbolico). Soprattutto mi sembra che sia un concetto che si presti bene ad analizzare le nostre pratiche a riconoscere i limiti di tutte quelle situazioni in cui diciamo che c’è inclusione. Penso soprattutto alla scuola (e le pagine in cui ne parlo sono chiare in questo senso) in cui troppo spesso si dice che c’è inclusione, che ci sono situazioni inclusive, mentre c’è semplicemente una presenza di alunni con disabilità, spesso in situazioni di separazione e marginalità rispetto agli altri alunni. Addirittura, recentemente ho sentito parlare “dell’aula inclusione”, per descrivere il luogo in cui, separatamente, sono portati ogni tanto gli alunni con disabilità. Ecco liminalità mi sembra un buon concetto per metterci alla prova. Ma la domanda va oltre. E in effetti, l’indeterminatezza, la limitatezza dell’esistenza stessa è un terreno che, secondo me, è utile da articolare anche con la chiave della disabilità. Non per essere fatalisti e rimandare nuovamente all’infinito le esistenze delle persone con disabilità, ma per mettere in luce che è proprio dentro quell’indeterminatezza e dentro i limiti (a cui si aggiungono le difficoltà di alcune condizioni di disabilità che non dobbiamo aver paura di dire tali) che dobbiamo pensare possibili esistenze anche con disabilità complesse.


AB: Contesto, questa è una delle mie parole sacre. Tu la metti in discussione; anche questa. Cosa significa? Quali azioni promuovere? Dentro quali pratiche, quali cornici di senso? È sufficiente evocarlo? No, certo. Per me è uno stimolo a cercare di dare volti e azioni a questa concettualizzazione.


MS: Anche qui, il mio intento non è fare la parte del contestatore per partito preso. Trovo poco interessante il ricorrere feticistico al contesto che non si sa mai, precisamente, di cosa sia fatto. In questa indeterminatezza si rischiano di rimandare sempre le questioni che credo, siano in genere legate alle persone e alle relazioni. La disabilità (e questo sì lo ripeto molto, dal titolo in poi) riguarda ciascuno di noi, per questo è una relazione. Allora per contesto io voglio che si chiami in causa anche questa dimensione relazionale che è sempre fatta di rapporti di forza complicati e in cui siamo tutti coinvolti. Nello stesso tempo non possiamo dimenticarci la complessità biologico-sociale-relazionale di alcune condizioni di disabilità. Attenzione, non intendo affermare che per le famose gravità ci debbano essere trattamenti sociali determinati, e in genere discriminanti. Voglio solo dire che quelle menomazioni attraverso cui si identificano le persone con disabilità anche nella Convenzione Onu esistono, fanno parte della biologia, della corporeità e dell’identità delle persone, non se ne può fare astrazione, per magia, invocando semplicemente i contesti.


AB: Nel tuo libro trovo presentato in chiave negativa il concetto di comunità. È vero che è un concetto ambiguo. Eppure, nella sua accezione di spazio di relazioni, di legami anche affettivi, mi sembra un attore fondamentale per quella azione educativa che metti nel sottotitolo. Che a me piace sì e no, per la verità. Faccio sempre fatica a immaginare un rapporto paritario per come l’educatore mi si dipinge in mente. Con quel piglio direttivo che vedo avere continuamente, anche da parte di operatori della neuropsichiatria, non solo educatori, ma psicologi, terapisti, neuropsichiatri. Dove il dispositivo della prestazione definisce dinamiche di potere, necessariamente. Clinica è la parola magica in cui vedo continuamente giocata questa dinamica. Apparentemente inclusiva, ma fortemente asimmetrica. Direttiva. Alla ricerca della “compliance”. Qual è l’accezione di educazione che secondo te non si lascia attrarre in questo gorgo?


MS: La scelta del sottotitolo del libro è legata al suo essere stato scritto, anzitutto, per chi si forma in questo ambito e con un livello di argomentazione il più accessibile possibile per gli studenti. Il mio intento era proprio mostrare quante trappole e quante dinamiche pericolose, e di inferiorizzazione, si annidano nel lavoro educativo e nelle professioni docenti. Il fatto che vi siano spesso dinamiche di potere è incontrovertibile e capisco quanto dici. Il problema è che questo mondo e questo modo di relazionarsi con le persone con disabilità instaurato, nei servizi, sull’oggettivazione clinico-diagnostica, su procedure, su protocolli, progetti, attività e questioni legali non lascia grande spazio a modalità di relazione diverse, se non quelle che, in alcuni casi, figure educative brave (ce ne sono alcune) riescono a costruire. Sul piano formativo, delle dinamiche del lavoro ci sono pochi spazi per costruire attenzione reale alle persone. Senza fornire soluzioni, volevo affermare in questo libro che nei mondi educativi ci sono tanti pericoli e rischi, e li enumero. Vogliamo cercare di comprenderli per risolverli?


AB: Trovo molto belle, importanti, necessarie le pagine che dedichi al concetto di violenza simbolica. Ritengo però necessario, oltre a riconoscere e vedere quella che chiami “una violenza non violenta, ma sempre violenza”, al contempo, riconoscere all’interlocutore uno spazio di evoluzione, di emancipazione. Per non inchiodarlo alla sua incapacità e noi stessi alla nostra. Come pensi si possa fare ciò? Pensi sia auspicabile?


MS: Anche in questo caso, non è un tema né collettivo, né nei servizi, né nella stessa letteratura. Sono molto legato a questo concetto che secondo me spiega molto bene le dinamiche più importanti che si costruiscono attorno alla disabilità. Ho cercato di trasporre in chiave disabilità ciò che il sociologo francese Bourdieu ha fatto per interpretare altre questioni sociali. Quello di violenza simbolica è un concetto molto profondo e anche molto pratico, nel senso che si gioca concretamente nelle relazioni. Ecco fa parte di quei temi che, a mio parere, dovrebbero entrare nel dibattito, nel confronto, all’interno dei gruppi in cui si vive la disabilità per confrontarsi e cercare di costruire pratiche nuovi su tutti i fronti con l’intento proprio di uscire dal fatto che siamo tutti vittime della violenza simbolica e qualcuno è ancora più vittima. Quel capitolo si chiude con una citazione a cui sono molto legato, quella secondo cui nuovi modi di pensare (rivoluzioni simboliche direbbe Bourdieu) devono rompere il conformismo logico con cui siamo soliti pensare il mondo.


AB: Tutto addosso alla famiglia è uno dei temi del libro. Emancipazione dalla famiglia. Necessità di distanziare. Necessità di riconoscere. E dentro le fatiche personali, di questo ruolo sovraccaricato, si sviluppano concettualizzazioni che anche nel tuo intervento per il progetto formativo sulla legge 112 segnali, ma senza attaccare. Guardando quasi con equidistanza protezione e affermazione di diritti. Quando sento parlare di necessità di emancipazione dalla famiglia mi viene in mente un nostro amico che ha sempre fatto il maestro elementare, in particolare per molti anni a supporto degli studenti di origine straniera. Ha vissuto nella sua casa con i genitori, prima, e con la madre poi, morta lo scorso anno alla soglia del secolo di vita. Eppure, non ho mai pensato ad Enzo come persona non adulta, che non stesse facendo la sua vita piena, di approfondimento di fede, di passione politica, di passione educativa, di tante relazioni e impegni in molti contesti di vita. A me viene da tenere sospeso il giudizio su questa dimensione. Che vita autodeterminata non significhi necessariamente uscire di casa. E che non ci sia una soglia anagrafica entro cui questo debba essere fatto. Credo che l’elemento più significativo sia il registro di relazioni presenti. Di cui avere cura reciprocamente. In famiglia, come in ogni relazione.


MS: Anche in questo caso mi sono attenuto alla dimensione del testo, quella prettamente formativa, per questo non ho attaccato. Anche perché la discussione sull’applicazione delle leggi mi annoia molto. Le leggi sono certamente importanti, ma non sono la vita delle persone o meglio, se la vita delle persone deve dipendere dalle leggi credo che siamo molto lontani da un’idea di società interessante. Sono le relazioni, la materialità delle cose, le aspirazioni, i vincoli, le dimensioni attorno a cui le persone cercano di dare senso alla loro esistenza ad essere importanti. È la concreta dimensione sociale quella che mi interessa, quello legislativo è solo un quadro. Ecco, nel capitolo dedicato alla famiglia volevo cercare di mettere in luce che alcune famiglie (contro cui spesso si scagliano insegnanti ed educatori) “diventano così” (chiuse, rivendicative, poco affabili, ecc.) perché per tutta la loro vita non hanno trovato risposte adeguate alle istanze e alle problematiche che si trovano ad affrontare. Il fatto poi che non esista un unico modello di vita mi trova concorde. Ciascuno deve cercare il proprio senso, il proprio significato, nei modi propri.


AB: Autodeterminazione, autonomia, indipendenza. Anche su questi concetti in cui continuamente ci si dibatte entri senza gentilezze dovute. Metti in evidenza lo slittare semantico dell’una e dell’altra espressione. In questi anni, e anche nella convenzione Onu, la scelta del termine “vita indipendente” non è stata felice. È necessario continuamente specificare, correggere, “sì, nel senso della convenzione Onu, non di non dipendere da nessuno”. Vita autodeterminata, che leggo è stato proposto, mi sembra un concetto meno equivocabile, anche se non in assoluto. Una proposta interessante.


MS: Il tema della vita indipendente è interessante e porta con sé una storia importante di lotte personali e collettive per l’autodeterminazione e per l’uscita da luoghi istituzionalizzati. Questa è la cosa più interessante, che poi si è declinata anche sulla questione della “possibilità di scelta” anche per persone con disabilità complesse. Benissimo, sono d’accordo. Ho però l’impressione che nel dibattito continui a giocarsi la questione dell’autonomia, dello scegliere quei modelli classici (quelli per cui il tuo amico Enzo rischierebbe di non essere capito) su cui si gioca l’indipendenza. Il dibattito è stato conquistato da un approccio individuale che non tiene conto di dimensioni relazionali e delle situazioni di dipendenza di alcune condizioni, della difficoltà di esprimersi di “dire ciò che si desidera”. In quei casi non si sa cosa fare né pensare, allora si torna alle forme assistenziali, ci si concentra sui bisogni. Secondo me alcune filosofe che hanno affrontato tali questioni (Kittay, Tronto) dicono cose interessanti, che dovrebbero entrare nei famosi luoghi di confronto che facciamo fatica a costruire.


AB: Anche i due documenti sacri per le politiche inclusive (ICF e Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, CRPD) non sfuggono alle tue domande irriverenti. Perché il re è nudo? Perché dovrebbe essere un valore l’individualismo che si insinua in alcuni passaggi anche della CRPD? E soprattutto il passaggio dove dici che la CRPD è stata usata fin qui soprattutto in chiave difensiva. Lo credo anch’io. Forse per questo l’impostazione di Marchisio e il suo gruppo7, “proviamo a prendere sul serio ciò che dice la CRPD”, appare feconda nell’aprire a possibili sviluppi. Prendere sul serio la Convenzione vuol dire anche darsi il permesso di smontare il piedistallo e indicarne le possibili incrinature? E se il nemico si insinua?


MS: È proprio perché il nemico si insinua (con le armi dell’inferiorizzazione e della violenza simbolica che appunto non sono percepite nemmeno come armi e violenze) che non possiamo usare certi testi in modo ideologico. La realtà delle forme di discriminazione, la complessità delle vite in cui si annidano soprusi, mancato riconoscimento è molto articolata. Quei testi sono necessari, ma non sufficienti, devono entrare nel vivo delle relazioni che, difficilmente, si lasciano determinare da testi, leggi, prescrizioni.

BIBLIOGRAFIA

1. Schianchi M. Disabilità e relazioni sociali. Temi e sfide per l’azione educativa. Roma: Carocci, 2021.

2. Schianchi M. Il debito simbolico. Una storia sociale della disabilità in Italia tra Otto e Novecento. Roma: Carocci, 2019.

3. Arnkil TE, Seikkula J. Metodi dialogici nel lavoro di rete, Per la psicoterapia di gruppo, il servizio sociale e la didattica. Roma: Erickson, 2013.

4. Goffman E. Stigma. L’identità negata. Verona: Ombre Corte, 2003.

5. Shakespeare TW. Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali. Roma: Erickson, 2017.

6. Murphy RF. Il silenzio del corpo. Antropologia della disabilità. Roma: Erickson, 2022.

7. Marchisio CM, Curto N. I diritti delle persone con disabilità. Percorsi di attuazione della convezione ONU. Roma: Carocci editore, 2020.


Antonio Bianchi

(abianchi@sonic.it) è un ingegnere elettronico che lavora con la tecnologia ICT come mezzo per supportare la partecipazione al contesto sociale delle persone con particolare vulnerabilità sociale. Referente del Centro sovrazonale di comunicazione aumentativa di Milano e Verdello (BG), http://sovrazonalecaa.org/

Matteo Schianchi

(matteo.schianchi@unimib.it) con una formazione internazionale in storia e scienze sociali è ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca nell’ambito della formazione e della ricerca sulla disabilità.