Mourning you




La laurea in Relazioni internazionali e Diritti umani che ho conseguito nel 2012 mi ha portato fin da subito a lavorare come operatrice umanitaria in progetti legati al diritto all’acqua e in contesti di emergenza; dalla Palestina alla Mongolia, dalla Repubblica Democratica del Congo all’Iraq. Questo tipo di esperienza lavorativa, oltre a rendere particolarmente fertile la mia immaginazione, mi ha reso molto sensibile alla rappresentazione dell’”altro” portandomi a sviluppare una visione personale e talvolta controcorrente soprattutto quando l’altro non condivide il nostro background culturale e geografico. Dal 2020 la fotografia ha preso il sopravvento sulla gestione di progetti e la utilizzo i principalmente per indagare la percezione dell’”alieno” e la sua rappresentazione, che sia esso un essere umano, una pianta o un insetto. L’attraversamento dei confini, che siano politici, sociali o anche immaginari, fa da filo conduttore ai miei lavori che vertono sulle questioni delle violazioni dei diritti umani e delle migrazioni, umane e non. Per parlare di queste tematiche la fotografia è il mezzo prediletto, che più si avvicina alle mie necessità espressive, ma non è il solo e si ibrida spesso con altri linguaggi comunicativi. Trovo che l’utilizzo dei dati sia fondamentale per poter comunicare efficacemente e, quindi, quando possibile, cerco di integrarli nei miei lavori.


IL PROGETTO

“Mourning you” è un progetto che nasce dall’esperienza come fotografa durante una missione particolarmente impegnativa su una nave di salvataggio nel Mediterraneo. Da una parte il mio ruolo ufficiale, i miei doveri, il mio contratto e dall’altra me, la mia sensibilità, la mia formazione, la mia etica. Me di fronte alle persone di cui ho la responsabilità di raccontare la storia. Mi chiedono foto ma io sento solo la mia posizione privilegiata di fronte a delle esistenze fragili e non completamente libere di decidere se entrare in quelle foto oppure no. Quelle storie sono importanti, hanno un valore immenso ma non al prezzo di usare loro ulteriore violenza, non al prezzo di violare la loro intimità. A cavalcare ancora la loro fragilità non ci sono riuscita. Di fronte a loro, non sono riuscita ad alzare la macchina fotografica.




Nasce dal conflitto interiore che provo davanti a persone giovani, forti, che hanno superato difficoltà incredibili ma che adesso non riescono ad arrivare in bagno e se la fanno addosso. Che camminano a quattro zampe perché non possono appoggiare i piedi. Persone che non riescono a farsi la doccia da sole. Gambe ustionate. Persone che si vergognano dei loro odori. Nasce all’intersezione tra il nostro diritto di sapere e il loro diritto di essere tutelati, di tutelare la fragilità dei loro corpi su quella frontiera liquida.

L’idea nasce soprattutto da un bisogno personale di elaborazione del lutto, di rallentare in un momento in cui tutto sembra andare velocissimo, di dedicare del tempo a delle persone che hanno fatto un tratto di strada brevissimo ma molto intenso insieme a me. Per me, questo processo è stato possibile grazie al lavoro a maglia. Ho cercato di unire la mia elaborazione del lutto alla necessità di parlare di quello che succede nel Mediterraneo senza solcare le solite narrative. L’ho fatto rendendo tangibili queste storie, traducendo le in un oggetto reale e tangibile: un paio di calzini fatti a mano con un motivo decorativo realizzato usando i dati dello sbarco.


ESERCIZI DI ELABORAZIONE DEL LUTTO

Il 2 febbraio 2023 la nave di salvataggio Sea Eye 4, su cui ero uno dei fotografi, ha recuperato 30 persone vive e 2 cadaveri da un’imbarcazione di metallo partita dalla Tunisia e in avaria. Da sei giorni. Da subito sento che se anche scattassi quelle foto di corpi provati, di occhi vuoti, di ferite fresche, toccherei solo la superficie di questo dramma. Eppure, credo che ci sia bisogno di documentare. So l’importanza di trasmettere quello che vedo, ma la fotografia in alcuni casi implica una violazione sui corpi e non è sufficiente, sento di dover attingere ad altre risorse, più lente, che coinvolgano gli altri sensi.

Come si elabora un lutto che non è il tuo? Un lutto che non ha una tomba. Un dolore che non ha ricordi. Un dolore che sgorga da un luogo imprecisato. Perché, anche per tanti di noi che lavorano quotidianamente con la morte come i medici e gli infermieri, quel lutto è così doloroso?

Succede perché vedere un morto di migrazione è un’esperienza inesplorata. Un morto di migrazione è giovane, è nel pieno dei suoi anni, non è malato ma soprattutto tu sai che poteva essere salvato, sicuramente. Il confine gli si è schiuso addosso prima che tu arrivassi e allora puoi dare la colpa all’ipotermia, al fatto che non sapeva nuotare, all’elicottero per l’evacuazione che arriva tardi ma tu sai che è morto di migrazione. Piangi per lui perché il suo corpo è lì davanti a te ma dentro ti si apre il dolore di mille lutti. Il dolore può essere infinito e la mente cerca le modalità più disparate per provare ad alleviarlo.




Nel lavoro a maglia le mani si muovono in un movimento cadenzato e ripetitivo come una meditazione, come in una preghiera e il tempo diventa solido. Lavorare a maglia è un processo lento, richiede tempo, concentrazione, pazienza. Come un amore; come l’elaborazione di un lutto. Elaborare un lutto attraverso la maglia è un atto simbolico in cui un dolore interno e privato diventa un oggetto reale e pubblico. È la materializzazione di un’emozione privata che ha bisogno di essere condivisa.


LEGENDA

Come leggere la visualizzazione dati.

Da sinistra verso destra dall’alto verso il basso.

Il pattern realizzato sul calzino è una visualizzazione basata sui dati reali.

Ho scelto di non rappresentare la nazionalità perché li si possa immaginare come provenienti da qualsiasi Paese, da un Paese immaginario o dal nostro. Il motivo in giallo è puramente decorativo e facilita la lettura dividendo in blocchi di dieci le linee e sfalsandone il punto di partenza. Ho scelto questa rappresentazione perché ogni persona possa essere rappresentata singolarmente e avere uno spazio.

In questa visualizzazione si possono ottenere informazioni sull’età delle persone, sul loro ordine di imbarco, sul sesso, su chi viaggiava accompagnato, sulle persone che hanno avuto un’evacuazione medica. Ogni linea verticale rappresenta una persona. Da sinistra verso destra si ha l’ordine di imbarco ovvero quello con cui le persone sono passate dal gommone di salvataggio a bordo della nave madre. Le persone che non viaggiavano sole sono rappresentate sulla stessa linea e per loro ho tenuto l’ordine di imbarco del primo della coppia.

I colori sono sgargianti e accesi in apparente contrasto con la tematica del lutto e rappresentano un preciso status: rosso per i minori non accompagnati, viola per gli adulti, verde acqua per i bambini maschi che viaggiavano con un adulto. Viola e rosa tratteggiato rappresentano le persone salite a bordo vive e decedute dopo l’evacuazione medica. Un punto nero all’inizio della linea indica che la linea sottostante è una donna. Le linee continue sono composte da un numero di punti a dritto, corrispondente all’età della persona che rappresentano. Le linee tratteggiate sono le vite interrotte con cui siamo venuti a contatto e di cui possiamo riportare i dati nelle statistiche.




I racconti delle persone parlavano di altre dieci, forse undici vite, tra cui quelle di tre bambini, abbandonate alle onde prima del nostro arrivo. Quelle vite non sono rappresentate qua come non lo sono nelle statistiche ma per loro il lavoro a maglia resterà aperto e incompiuto.


LA VISTA

La vista è il senso prediletto dei fotografi. Quello più affinato, sviluppato e affamato.

Sulla nave è continuamente sotto pressione. Ad ogni ora del giorno e della notte ci sono persone che lavorano, luci rosse delle lampade che incontrano quelle blu delle albe, riflessi, cose che succedono.

Io piano piano perdo la padronanza che ho di questo senso. Me ne accorgo a cena. Non riesco a mettere a fuoco quello che ho nel piatto. Per quanto mi sforzi, non riesco a vedere i contorni del mix di verdure al forno sotto il mio naso. Mi spavento. Non riesco più a concentrarmi su quello che gli altri mi dicono. Provo a mettere a fuoco a varie distanze. Da lontano funziona meglio. Non so cosa mi sta succedendo ma non voglio dirlo, forse è solo la stanchezza. Ma non mi è mai successo. Poi non passa. Lo dico al medico. Angelika mi sorride, non è niente, sono solo gli effetti collaterali del cerotto per il mal di mare. Ci sono state onde fino a sette metri. La nave ondeggia da una parte all’altra, per giorni non sono potuta entrare sotto coperta senza vomitare. Il cerotto non posso toglierlo neanche se volessi. Non sono mai stata un asso della messa a fuoco e ora men che mai. Mi sento persa ma poi mi suggeriscono: «Lascia andare, fai tutto sfocato come vedi». Lascio andare. Il mare in burrasca, il vento da tutti i lati, la mia vista annebbiata, le ore di sonno che si accumulano, la mente poco lucida. Il mosso e lo sfocato si mescolano e rendono tutto pastoso ma solido. Come un quadro appena abbozzato, come i miei ricordi adesso.


IL TATTO

Quello che avviene nel Mediterraneo ogni mese da anni ormai, è violento e doloroso e va veloce. Non ci si può fermare. Persone che attraversano, persone che annegano, persone che arrivano. I numeri aumentano, difficile realizzare davvero la quantità di vita che si perde, che ci prova, che non ci riesce. Difficile soffermarsi sui dettagli. Il dramma è enorme.

Non ho i guanti, neanche quelli di lattice perché devo solo fare le foto durante l’imbarco. Poi tutto precipita velocemente in quel salvataggio disperato. Nessuno riesce a camminare e quasi tutti vengono issati a bordo con le corde, uno ad uno, sdraiati sul ponte in attesa del triage completo. Sono bagnati e nel frattempo è sera. Ipotermia. Una parola che si legge spesso, velocemente. Quanto freddo è un corpo in ipotermia? Tanto da darti l’idea di essere morto quando lo tocchi se non fosse per il tremore. I muscoli sono rigidi sotto la pelle che sembra sottile. Vedo un risultato sul termometro elettronico mentre la misurano. 33,8 gradi corporei. Ho voglia di lana. Della sensazione che ti dà quando la indossi.




Quei vestiti sono ruvidi, scomodi, intrisi di acqua di mare e carburante. Il sale gli dà una texture granulosa. Sapevano che avrebbero avuto freddo quindi hanno indossato diversi strati di pantaloni. Calze, leggins, jeans. I jeans sono duri e i piedi nudi e gonfi sembrano scoppiare all’estremità. Bisogna toglierli.

La macchina fotografica è sempre accanto a me ma non la alzo. Neanche quando devo prendere delle forbici per togliere i pantaloni, delicatamente, mentre il suo corpo trema e il mio, per differenti ragioni, fa lo stesso. Neanche quando dei pezzi di pelle si staccano assieme al tessuto che stiamo cercando di rimuovere. E tocco la carne viva, fresca, rosa.


L’UDITO

I silenzi, i rumori assordanti, i sussurri.

Ora so che avvicinandoti ad una barca in mezzo al mare il suono più atroce da sentire non sono le urla di chi vuole essere salvato, ma il silenzio. Sentire che non stanno più lottando. Le onde li cullano, il cortocircuito nel vedere corpi vivi e anime assenti. La calma che non è propria delle situazioni di salvataggio. C’è la disperata ultima lotta alla sopravvivenza di chi vuole salire per primo, di chi ti vuole dare il bambino, di chi ti deve comunicare che sta male, che non ha ancora avuto il giubbotto di salvataggio. I bambini piangono, gli adulti urlano. Va tutto bene. Quando ti avvicini e tutto tace i tuoi sensi si allertano.

Katum sale a bordo tra gli ultimi ed è incosciente, non si riprenderà mai e verrà evacuato il giorno dopo da Malta. Viene calato a bordo un medico. L’elicottero è vicinissimo. Il rumore delle pale sopra le nostre teste è assordante. Graffia nella testa. I movimenti concitati. Ci si parla a gesti e bisogna fare in fretta. Il mare, il vento, noi, tutto attorno si agita. Non sentiremo mai la sua voce, non sapremo mai niente di lui, non sapremo la sua storia. Malta non risponderà mai alle nostre richieste di informazioni ma ci giungeranno solo voci secondarie secondo cui Katum sarebbe morto due giorni dopo.




Ismail alterna momenti di lucidità a momenti di totale assenza. Nei momenti di lucidità ha freddo vuole essere coperto, si scusa per la sua condizione, vuole stare sdraiato, ha sete. Poi un giorno vuole andare in bagno, perde coscienza poco dopo e non la riprenderà più. Cominciano le procedure di evacuazione. Sembra solo addormentato, provo stupidamente a dargli dei pizzicotti, la pelle fresca, sottile, senza grasso. Arriva l’elicottero. Morirà poco dopo, da solo all’ospedale di Messina. Ismail ce l’aveva quasi fatta. Il suo lutto brucia di un dolore diverso. Ha ricordi, una voce, un’espressione degli occhi, un momento di tracollo. Tutto in un lasso di tempo brevissimo.

I sussurri sono come sempre per gli amanti. Sdraiati sul ponte, appena imbarcati, sfiniti, supini, vicini. “On est en sécurité. Ça va aller maintenant pour nous”.


L’OLFATTO E IL GUSTO

Sono particolarmente sensibile agli odori e tra gli oggetti di comfort che mi sono portata a bordo per questa missione ci sono delle pasticche per profumare il bucato. Una volta cominciato il mal di mare dovrò tenerle fuori dalla cabina, quello stesso odore che mi faceva sentire a casa ora mi fa ribaltare lo stomaco. Dalla sala macchine, poi, sale un odore pungente, di grasso, di olio, di calore, di metallo che mi prende alla gola. Solo il vento mi dà sollievo.

L’olfatto e il gusto dopo il salvataggio diventano un senso unico. Si mescolano.

L’odore del carburante arriva a bordo ancora prima dei naufraghi. Sottovento, mentre aspettiamo che i ragazzi dal gommone facciano il primo viaggio, lo sentiamo già. Mi spiegano che il carburante che viene dato loro per questo tipo di viaggi è poco raffinato, più grezzo. Dà l’illusione che i motori vadano meglio, più veloci, poi in realtà si inceppano, si bruciano. Le barche vanno in avaria. Le taniche restano a bordo colme. Spesso si rovesciano e si mescolano all’acqua di mare e inzuppano i vestiti. Quella miscela letale, rimanendo a contatto con la pelle per tempi prolungati causa ustioni gravissime.

Spesso a soffrirne di più sono le donne che nell’illusione di una maggiore protezione vengono fatte stare al centro delle barche. In questo caso hanno usato quegli stessi contenitori per bere acqua di mare. Quel gonfiore alle estremità che gli impedisce di camminare è dovuto alla posizione seduta tenuta per giorni unita alle grosse quantità di acqua di mare ingerita.

Quando tutti i naufraghi sono a bordo l’odore è fortissimo, dà la nausea e penetra gli altri sensi.

Anche il giorno dopo il soccorso, il cibo e l’acqua avranno il sapore del carburante.


Martina Morini

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