Ripensare il concetto di produzione della salute


Leggendo “Il medico del nuovo millennio” di Domenico Ribatti penso di aver capito le ragioni per le quali gli editori possano essere interessati alle opinioni di qualcuno che la professione medica la sta ancora scoprendo. L’autore, infatti, offre un’analisi accurata, arricchita da dati numerici, contestualizzazioni storiche e veramente tante citazioni, che delinea una panoramica intrigante di una professione chiaramente destinata a cambiare.

Ritengo che la forza del testo risieda nella sua capacità di sintetizzare e spiegare in davvero poche pagine l’evoluzione storica della professione arrivando fino ai nostri giorni. Oggi, spiega Ribatti, la professione è fortemente influenzata da dinamiche complesse, tra cui il sottofinanziamento del sistema sanitario, ormai tristemente noto a tutti, che costringe anche molti pazienti a rinunciare a prestazioni diagnostico-terapeutiche o, per chi può, a ricorrere al privato o all’assistenza in altre regioni.

L’importanza delle cure primarie e della medicina territoriale è più volte ripresa lungo tutto il testo: investire nel privato e nei grandi ospedali, in una società in invecchiamento e in cui la mortalità è per lo più dovuta a patologie croniche, cardiovascolari in primis ma anche neoplastiche, neurologiche o respiratorie, si è rivelato a dir poco fallimentare. Le patologie croniche esigono una medicina territoriale. L’ospedale, con le sue sofisticate attrezzature diagnostiche e terapeutiche, deve essere solo un componente aggiuntivo di un sistema universalistico focalizzato sulla cura di tutti. Su questo punto l’autore dedica almeno due capitoli: uno sul superamento dello spazio ospedaliero e uno sul Covid-19, come esempio di sistema sanitario colto impreparato. Purtroppo, nonostante il PNRR, sarà alquanto improbabile mettere in piedi Case di Comunità senza apportare le modifiche necessarie alla spesa sanitaria per sostenere il personale che le compone, tra cui medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti e infermieri.

C’è poi il tema di una medicina iperspecializzata che in assenza di reti mette a rischio la continuità assistenziale. In effetti, ho già avuto modo di provare questa esperienza: tra gli ambulatori dell’ospedale universitario in cui studio non è raro vedere pazienti spostarsi da un ambulatorio all’altro portando con sé molti documenti, ma senza sapere esattamente cosa aspettarsi da ciascun incontro. In questo senso, noi studenti siamo forse tra i primi a sentirsi delusi, idealizzando una professione che, purtroppo, rischia di trasformarsi in un mero tecnicismo.




Il libro solleva quindi importanti questioni sulla universalità del sistema sanitario, ovvero la sua capacità di produrre salute contrastando le disuguaglianze. Possiamo ancora considerare il nostro sistema sanitario universale? Valutare l’efficacia di un sistema che si propone come universale è semplice, spiega l’autore: basta valutare se i benefici del sistema sono equamente distribuiti. Chiaramente non è così. Esistono importanti disuguaglianze nell'accesso alle prestazioni sanitarie, aspetti che ritengo spesso non vengano sufficientemente affrontati nelle aule universitarie ma che questo testo, invece, spiega bene. Un esempio lampante di questa disparità è dato dall'aspettativa di vita di chi è nato in Calabria nel 2017, inferiore di ben 8 anni rispetto a chi nasce nello stesso anno in Emilia-Romagna. È quindi imprescindibile che il sistema sanitario rivaluti fortemente il peso dei determinanti sociali della salute.

In definitiva, Domenico Ribatti con questo testo offre una prospettiva avvincente sulle sfide che il sistema sanitario e il personale medico si troveranno ad affrontare, invitandoci a riflettere sulla necessità di ripensare profondamente il concetto di produzione della salute.

Alessandro Dimitrio

eliasdimitrio@gmail.com