Bambini in carcere, pochi per essere ascoltati

“Apri”. È questa, spesso, la prima parola pronunciata da un bambino cresciuto in carcere1. La legge in vigore (n. 62 del 2011) prevede che la detenzione di donne con figli minori di sei anni non avvenga necessariamente in un Istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM) ma in una casa famiglia protetta. Tuttavia questa possibilità non è finanziata e quindi, in pratica, non esiste: in Italia ci sono due case famiglia protette, a Roma e Milano. Anche gli ICAM sono pochi, presenti solo in alcune città, e questo potrebbe significare un ulteriore allontanamento di quel bambino (e della propria madre) dalla famiglia o, in generale, dalla rete presente fuori dal carcere. Per giunta “[gli ICAM] per loro stessa natura mantengono una connotazione tipicamente detentiva, con evidenti conseguenze lesive per i minori in essi ospitati”2. La proposta di Siani e altri3 era finalizzata al superamento delle criticità della legge in vigore, senza modificarne l’impianto essenziale e mantenendo lo spirito di quella riforma, finalizzata a impedire che i bambini varchino la soglia del carcere. “In particolare si persegue quella finalità valorizzando l’esperienza delle case famiglia, considerate da tutti la vera soluzione al problema. Pur senza escludere il ricorso agli ICAM nei casi più gravi, si mira a promuovere il modello delle case famiglia, in primo luogo mediante l’eliminazione dei vincoli economici contenuti nella legge n. 62 del 2011”2.

Qual è stato l’impatto mediatico di quella proposta di legge (e della sua approvazione quasi all’unanimità), quante persone ne erano a conoscenza? Io no, pur trovandomi in un contesto lavorativo privilegiato, in cui è facile che si parli di questioni del genere. Non solo, quello delle carceri, delle condizioni di salute dei detenuti e, più recentemente, della genitorialità di persone detenute, è un fenomeno a cui non mi definirei del tutto estraneo. Eppure sapevo poco o niente. “Senza colpe – Bambini in carcere” di Paolo Siani ha il coraggio di esporsi su un tema poco noto e il merito di richiamare l’attenzione di tutte le persone, non solo quella dei così detti decisori – raramente questo termine si è dimostrato meno azzeccato! –. Coraggioso, oggi, è chi parla di fenomeni così ininfluenti: che bacino elettorale possono garantire poche decine di bambini in carcere con le proprie mamme?

Quello del superiore interesse del minorenne è un principio cardine della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, ratificata dall’Italia nel 1991, per cui in ogni legge, iniziativa pubblica o privata, l’interesse del bambino “deve essere una considerazione preminente”4. Per garantire questi interessi la Convenzione esorta gli Stati che l’hanno sottoscritta a non separare i figli dai propri genitori, finendo inevitabilmente per creare il paradosso di far vivere questi bambini nelle condizioni disumane del carcere.

Non vuole essere uno slogan vacuo e borbottato pavidamente, ma dov’è lo Stato, garante dei diritti dei propri bambini ingiustamente detenuti? Non c’è. Nelle carceri lo Stato non ci entra nemmeno per documentarsi su come si viva con un sovraffollamento del 20%, per analizzare l’aumento del consumo di psicofarmaci, dei decessi e, tra questi, dei suicidi. Quelle carceri in cui non esiste più la pena di morte ma spesso si assiste alla “morte per pena”, come la definiva Marco Pannella. E allora non ci entra nemmeno per conoscere quella manciata di bambini che poi, si dirà, alla fine stanno insieme alla propria mamma. Samuele Ciambarello, nel libro, ricorda il principio insuperabile secondo cui “per essere giudici occorre prima essere imputati”1.




Le dinamiche del rapporto tra un bambino e il proprio genitore, di come queste influenzino lo sviluppo cognitivo, la personalità, la sensibilità di quel bambino che diventerà adulto, vengono studiate dall’inizio del secolo scorso e la conoscenza prodotta orienta (o dovrebbe orientare) politiche di welfare nazionali e internazionali. Siani ci ricorda la “sindrome da prigionia”, in cui “i bambini detenuti possono sviluppare difficoltà nel gestire le emozioni e senso di inadeguatezza, di sfiducia, di inferiorità, che si accompagnano a un tardivo progresso linguistico e motorio, causato dalla ripetitività dei gesti, dalla ristrettezza degli spazi di gioco, dalla mancanza di stimoli”1. Come si è arrivati a uno scollamento tale, per cui una nutrita comunità scientifica produce in modo quasi ossessivo evidenze sulla centralità dei così detti “primi mille giorni” di vita di un feto-neonato e, dall’altra parte, si ammette la brutalità, istituzionalizzata, di bambini cresciuti all’interno di un carcere?

È tutto sbagliato. Dopo tutto quello che è stato scoperto sull’importanza degli stimoli a cui esporre un bambino già durante la permanenza nella pancia della mamma, sul contatto con il mondo, la natura, l’esterno. Per questi bambini la vita all’esterno è concessa solo per poco tempo e con altre restrizioni, oltre quella temporale. La vita è all’interno di una struttura che non sarà mai adeguata a un bambino. Saranno inadeguati i colori di quella struttura, i rumori, gli odori, che, oltre tutto, saranno sempre gli stessi. “Il tempo e lo spazio si intrecciano senza evolversi, rimanendo sempre uguali a sé stessi”, scrive Carla Garlatti1. Gli spazi sono limitati e anche i movimenti del corpo di questi bambini lo sono.

I bambini devono stare fuori dal carcere, non esiste una soluzione migliore, non c’è un’altra soluzione. “Perché i reati e le colpe delle madri non dovrebbero mai cadere sui figli, incolpevoli” (Paolo Lattanzio). Questi bambini “non hanno violato le norme eppure sono in carcere” (Samuele Ciambriello)1.

Nel libro ho trovato emblematica una delle storie di questi bambini, quella di Paolo, quattro anni, raccontata da Gemma Tuccillo. Questo bambino vorrebbe invitare gli amici a giocare ma sa di non poterlo fare, non tanto per i divieti del carcere ma perché è consapevole di “trovarsi in una situazione di cui non rendere partecipi i compagni”1. Se ne vergogna, sa che anche la madre si vergogna e, quindi, per tutelarla, racconta una bugia (che lui stesso confessa) a chi lo intervista “vorrei invitare i compagni a giocare da me, ma non posso perché la mia mamma ha sempre il mal di testa”. Continua Tuccillo: “La protegge dal giudizio degli altri ed anche dal suo. Tutto ciò che lo limita non può, non deve dipendere da lei. Dipende da un malessere. Non è colpa di nessuno”.

La salute della popolazione carceraria – di cui entrano a far parte anche questi bambini – è nelle mani dello Stato, è tutelata dallo Stato, tanto quanto quella di persone ricoverate in un ospedale. Quella dei bambini in carcere non rappresenta una così detta popolazione hard to reach, per cui è necessario trovare interventi di cura non solo efficaci ma anche pervasivi. Non sono nemmeno bambini colpiti imprevedibilmente da una guerra, da un terremoto o da un’alluvione per cui, auspicabilmente, si continueranno a studiare strategie per ridurre al minimo l’impatto che questi traumi avranno sulla loro esistenza. Quello che accade ai bambini in carcere è dovuto, principalmente, a ciò che lo Stato ha deciso (o non ha deciso).

E se allargassimo lo sguardo a tutti i bambini con uno o entrambi i genitori in galera? Ogni anno circa 100.000 bambini entrano in un carcere italiano (più di due milioni in Europa) per fare visita a uno o entrambi i genitori detenuti. In tutto il 2021, ad esempio, ci sono stati 280.675 colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne4. Chi guida questi bambini, chi li orienta, chi li protegge fino a quando non saranno in grado di farlo da soli? Lo stesso Stato che a oggi non è riuscito a trovare a una ventina di loro una sistemazione migliore di una prigione? “Il vero problema inizia quando la mamma esce dal carcere, se nessuno attiva una rete di protezione, difficilmente quella donna potrà salvarsi e quel bambino iniziare un percorso di vita normale” scrive ancora Siani, “la gravidanza avrebbe potuto rappresentare un momento importante per prendere in carico la mamma e il bambino attraverso programmi cosiddetti di ‘adozione sociale’”1.

Il 16 dicembre 2021 è stata rinnovata per quattro anni la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti, un protocollo di intesa firmato da Ministero della Giustizia, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e Bambinisenzasbarre Onlus4. Le parole dell’allora Ministro della Giustizia, Marta Cartabia: “La nostra meta è ‘mai più bambini in carcere’. Tutti i bambini, anche se con genitori detenuti, hanno diritto all’infanzia. Anche con questa Carta, lavoriamo perché i bambini – innocenti per definizione – non paghino le pene inflitte alle madri. Contemporaneamente, lavoriamo perché si riduca il più possibile quella ‘distanza dagli affetti’ provocata dalla detenzione”. “La Carta impegna il sistema penitenziario italiano a confrontarsi con la presenza dei bambini in carcere e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta nel rispetto dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” il commento della garante Carla Garlatti.

E il corpo di polizia penitenziaria che si trova ad avere a che fare con un bambino, viene adeguatamente formato e, se necessario, ascoltato, sostenuto? Ma questa è un’altra storia. No, non è un’altra storia, così come non lo sono tutte quelle raccontate in “Senza colpe – Bambini in carcere”. Ancora troppo poco ma almeno qualcuno le racconta, almeno qualcuno la propone questa “battaglia di civiltà”1.

Edoardo Corsi Decenti

Centro Nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute Istituto Superiore di Sanità, Roma

edoardo.corsi@iss.it

BIBLIOGRAFIA

1. Siani P. Senza colpe. Bambini in carcere. Napoli: Guida editore, 2023.

2. Camera dei deputati. Proposta di legge: t.ly/mnl_D

3. Presentata a fine 2019, approvata dalla Camera dei deputati nel 2022, non approdata in Senato a causa della caduta del governo Draghi.

4. Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti: t.ly/vA290.