Aberrigeni


“Il rischio che si corre è duplice e speculare”, ci avverte il ministro della Cultura Alessandro Giuli il 9 ottobre: “l’entusiasmo passivo che rimuove i pericoli dell’iper-tecnologizzazione e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia”.

Parole forti, che meriterebbero di essere ulteriormente valorizzate da un’impaginazione, una grafica o almeno una stampa adeguata, un font alla Depero, magari traendo ispirazione dal poster del Manifesto futurista delle malattie reumatologiche presentato al Ministero della salute il 31 ottobre scorso. Che diamine: a dire – e prima ancora a pensare – certe cose su apocalittici e integrati ci si aspettava un Valentino Bompiani sotto casa con un contratto da firmare con lo spazio per le cifre in bianco. L’immaginazione linguistica e la creatività verbo-visuale del ministro (mamma mia, che emozione quell’annusata al libro durante la presentazione della nuova serie della rivista della Biennale di Venezia) sono però uno dei pochi strumenti usati dal governo per comunicare la direzione verso la quale sta portando il Paese: anche la forma è sostanza e tutto contribuisce a una maggiore chiarezza.

Paradossalmente, torna utile anche la trasparenza delle idee, che a qualcuno potrebbero addirittura sembrar confuse: per Giuli siamo aberrigeni, meticci linguisticamente e antropologicamente. Cresciuti tutto attorno al Mediterraneo, siamo riusciti fortunatamente ad approdare “sul suolo italico” qualche millennio prima di chi oggi, compiendo lo stesso viaggio, aborigeno era e aborigeno resta per il governo, magari in un centro di detenzione albanese. In filigrana, è visibile la dialettica (non nuovissima anche questa, a dire il vero) tra città e campagna, tra centro e periferia, tra Stato e mercato: sono i poli di attrazione in cui si muove (poco) chi è alla guida del Paese e che – nell’incertezza – fa propria la politica di un colpo al cerchio e l’altro alla botte.

Come ha scritto Mimmo Cangiano sul sito Lucy sulla cultura il 15 ottobre, “l’interesse verso le periferie e le zone non-centrali del paese diventa nuovamente capacità, mediante una pianificazione economica guidata da intenti etico-culturali, di preservare quelle specificità locali a rischio sparizione (o degradazione) se lasciati alla mano invisibile del mercato”. Così, si guarda con interesse alla provincia, ai territori periferici dove non mancano occasioni preziose per sottolineare le radici profonde della nostra cultura: dalla sagra del maialino nero casertano alla festa dei fagioli di Cellole. Del resto – mai come parlando di appuntamenti gastronomici – tutto fa brodo e, nel minestrone, la varietà non è confusione ma qualità: “la cultura” è funzionale alla formazione delle identità nazionali e all’inclusione sociale. Ci si deve “reidratare dal punto di vista della cultura” avverte il ministro, del quale aspettiamo a giorni la celebrazione della polibibita di Enrico Prampolini, geniale futurista inventore di un cocktail che sintetizza tradizione e dissacrazione.*

Ldf – luca.defiore@pensiero.it

* Ricetta della polibibita di Enrico Prampolini: parti uguali di grappa bianca, gin italiano aromatico, liquore al cumino e sambuca. In più, un’ostia farmaceutica (attenzione: non consacrata) ripiegata su se stessa con all’interno mezzo filetto di acciuga.