Bevacizumab e DMLE: una decisione da rivedere
A prima vista può sembrare una decisione tecnica. Nella seduta del 26-27 settembre, la Commissione Tecnico-Scientifica (CTS) dell’Agenzia Italiana del Farmaco ha disposto “la rimozione dell’indicazione dell’uso intravitreale di Avastin® (bevacizumab) dalla lista di cui alla legge n. 648/96”. Finora, cioè, il bevacizumab poteva essere utilizzato a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), sebbene off-label, per il trattamento della degenerazione maculare legata all’età (DMLE). D’ora in avanti ciò non potrà più avvenire.
Alla base della decisione della CTS c’è una modifica del foglietto illustrativo del bevacizumab, approvato a fine agosto dall’Agenzia europea dei medicinali. Nell’aggiornamento effettuato sono stati riportati i principali eventi avversi segnalati in associazione all’uso del bevacizumab nel trattamento della degenerazione maculare, quali le infezioni dell’occhio (fino alle gravi endoftalmiti) e gli eventi trombotici (dalle tromboembolie venose agli infarti del miocardio).
Si tratta di eventi noti e documentati nei circa sette anni di uso del farmaco nella degenerazione maculare a livello internazionale. Non solo, sono riportati quasi con le stesse parole anche nel foglietto illustrativo della principale alternativa terapeutica disponibile, il ranibizumab. Inoltre, nelle sperimentazioni che hanno confrontato il bevacizumab con il ranibizumab si è osservato che la frequenza di questi eventi avversi, così come il beneficio clinico, sono largamente sovrapponibili. Per questa ragione, sia gli editoriali di accompagnamento degli articoli che presentavano i risultati delle sperimentazioni, che le associazioni dei medici oculisti, si erano espresse per considerare sostanzialmente intercambiabili i due farmaci.
D’ora in avanti, nel SSN potranno essere utilizzati solo gli altri due farmaci con indicazioni approvate: il ranibizumab e (per una parte delle indicazioni) il pegaptanib. Anche se considerati sovrapponibili quanto a profilo beneficio-rischio, il costo di un trattamento con bevacizumab è stimato da 12 a 70 volte inferiore a quello del ranibizumab. Tenuto conto della necessità di trattamenti ripetuti, la differenza di costo per paziente può raggiungere circa 10.000 euro per anno. In un editoriale del British Medical Journal (Godlee, www.bmj.com/ content/ 344/bmj.e3162) si stima che nel Regno Unito l’utilizzo del farmaco meno costoso potrebbe portare a un risparmio di circa 300 milioni di sterline all’anno. In un articolo de “lavoce.info” Dirindin e Magrini stimano per l’Italia che l’uso del bevacizumab potrebbe comportare un risparmio superiore a 200 milioni di euro per anno (www.lavoce.info/articoli/pagina1003158-351.html).
Come ricordava Antonio Addis nel numero 4/2012 della rivista (p. 168) bevacizumab e ranibizumab sono stati sviluppati dalla stessa azienda farmaceutica (Genentech), la quale non ha però mai richiesto l’autorizzazione per la degenerazione maculare (il bevacizumab è attualmente in commercio per indicazioni antitumorali) e si è ben guardata dall’avviare grandi studi comparativi fra le due molecole. Al momento, i due studi clinici comparativi finora pubblicati sono stati finanziati non dall’azienda ma da organismi indipendenti: il National Eye Institute negli Usa e il National Institute for Health Research nel Regno Unito. Nonostante la sovrapponibilità dei risultati, tuttavia, il meccanismo di registrazione di un farmaco consente all’azienda titolare del brevetto di non richiedere l’autorizzazione per indicazioni considerate prive di interesse commerciale.
Le conclusioni da trarre sono semplici. La prima è che non basta affermare che ci sono rischi associati all’uso del bevacizumab nel trattamento della degenerazione maculare. Nell’interesse dei pazienti, la decisione di un organismo tecnico dovrebbe basarsi sul confronto dell’insieme delle conoscenze scientifiche sui benefici e rischi delle alternative terapeutiche disponibili. La seconda è che gli interessi delle aziende produttrici e quelli dei servizi sanitari possono essere divergenti. Solo la ricerca indipendente può coprire quei gap di conoscenze per i quali non c’è un sufficiente interesse commerciale.
Giuseppe Traversa
Centro nazionale di epidemiologia
Istituto Superiore di Sanità
giuseppe.traversa@iss.it

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