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Victims and corporations
Implementation of Directive 2012/29/EU for victims of corporate crimes and corporate violence. Un progetto dell’Università Cattolica finanziato dalla Commissione Europea

A ogni persona, prima o poi nella vita, spesso senza accorgersene, è capitato o capiterà di finire vittima dei cosiddetti corporate crimes, ossia di illeciti commessi da società, grandi o piccole, nel corso della loro attività produttiva, commerciale o finanziaria. Si tratta di fatti molto più diffusi dei c.d. crimini comuni o “di strada” e che spesso determinano non solo danni economici, ma effetti sulla salute o la vita stessa di chi ne è colpito (si parla in questo caso di corporate violence). Conseguenze personali, quindi, che possono essere altrettanto, se non più gravi, di quelle subite a causa dei reati che destano maggiore allarme sociale e creano “insicurezza”, come rapine, omicidi, violenze di varia natura, ecc., con la differenza che chi ne è vittima spesso non si accorge di esserlo in ragione di vari fattori, come i lunghi periodi di latenza delle malattie contratte, la difficoltà di ricostruirne le cause, la natura per lo più colposa degli illeciti in questione o, ancora, l’enorme divario di mezzi e conoscenze tra le potenti organizzazioni che li perpetrano (si pensi alle grandi multinazionali) e le vittime, individuali o collettive, che li subiscono.
Al tempo stesso, la promozione di una crescente sensibilità, sociale e istituzionale, per chi abbia subito un reato – e in particolare per le vittime più vulnerabili – è da tempo al centro delle politiche europee, culminate nella Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e che anche il nostro Paese ha recentemente recepito – sia pure solo parzialmente e con qualche ritardo – con il d.lgs. 212 del 15 dicembre 2015. La direttiva introduce una prospettiva rivoluzionaria in un sistema penale che tradizionalmente, e sia pure spesso per comprensibili ragioni di garanzia nei confronti degli imputati, ha relegato le persone offese dal reato in un ruolo del tutto marginale: essa pretende infatti il riconoscimento – e soddisfacimento – caso per caso, individuo per individuo, dei bisogni di assistenza, sostegno e protezione di ciascuna vittima, dentro e fuori il processo penale, con particolare attenzione ai soggetti più vulnerabili, come, tipicamente, minori, vittime di violenza domestica, della tratta di esseri umani, o di atti di terrorismo. E tuttavia anche le vittime di corporate violence – oltre a eccedere, per numerosità, le vittime di questi ultimi reati – possono a buon diritto considerarsi soggetti vulnerabili.
Basta pensare alle vittime di malattie legate all’esposizione (lavorativa, ma non solo) all’amianto – 107.000 morti e 1.523.000 anni persi, in termini di aspettativa di vita, a causa della malattia, per disabilità o per morte prematura, nel mondo nel solo 2004, secondo dati dell’OMS – inquinante ubiquitario anche in Italia e assurto ai dubbi onori delle nostre cronache giudiziarie con i casi Eternit, Olivetti, e altri. O, ancora, ai 3.700.000 morti annui (pari al 6,7% dei decessi a livello mondiale) dovuti a malattie oncologiche, cardiocircolatorie o dell’apparato respiratorio legate all’inquinamento da polveri sottili (ancora dati dell’OMS), fenomeno che per altro comporta ulteriori pesanti ricadute a livello sociale ed economico: secondo i più recenti dati dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, le emissioni industriali sono costate ai Paesi dell’Unione Europea, nel solo 2012, tra i 59 e i 189 miliardi di euro, comprensivi delle ricadute economiche negative di morti premature, giornate di lavoro perse per malattia, aumento della spesa sanitaria, danni all’agricoltura, agli immobili e all’ambiente. Quand’anche appena un decimo di questi decessi e malattie fosse riconducibile a comportamenti illeciti delle imprese produttrici, verrebbe comunque superato di oltre dieci volte il numero totale annuo delle vittime di attacchi terroristici in tutto il mondo (32.685 nel 2014, secondo l’ultimo Global Terrorism Index). E proprio come per il terrorismo, questa strage silenziosa interessa in misura prevalente le comunità e i Paesi più poveri, dove la maggioranza dei siti e delle produzioni più inquinanti sono localizzati.



Vittime vulnerabili, dunque, non solo per il generale svantaggio economico e conoscitivo in cui versano nei confronti degli autori del reato, ma anche, assai spesso, per l’elevato rischio di vittimizzazione ripetuta: si pensi a tutti coloro che si vedono costretti, per mantenere il posto di lavoro e un reddito per sé e la famiglia, a continuare a lavorare in un ambiente in cui vengono violate elementari regole di sicurezza, o all’impossibilità per la maggioranza delle persone di abbandonare il luogo di residenza, per quanto pesantemente inquinato, o ancora alla situazione di quei malati cronici che, per restare in vita, non possano fare a meno di un farmaco poi rivelatosi non sicuro, come nel noto – e globale – caso della contaminazione di prodotti emoderivati dovuta a pratiche incaute e illegali nell’acquisto, lavorazione e commercializzazione del plasma umano. O, ancora, vittime vulnerabili perché per definizione indifese, come i bambini affetti da gravissime malformazioni in seguito alla commercializzazione del talidomide come antinausea per le donne incinte. Vittime ‘difficili’, dunque, anche per l’apparato dell’amministrazione della giustizia, già messo in tensione dalla nuova esigenza di attenzione al singolo individuo offeso da un reato sollevata dalla Direttiva, e ancor di più di fronte a vittime tanto numerose, eterogenee, spesso invisibili, spesso inconsapevoli.
Proprio alla sfida posta dall’applicazione della Direttiva europea, e quindi dalla promozione di un effettivo riconoscimento di tutti i diritti da questa previsti, a questa particolare tipologia di vittime cerca ora di dare risposta un innovativo progetto di ricerca-azione, finanziato dalla Commissione Europea, portato avanti dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con il Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht di Friburgo i.B. e con il Leuven Institut of Criminology. Il progetto, intitolato Victims and Corporations. Implementation of Directive 2012/29/EU for victims of corporate crimes and corporate violence, mira a favorire la conoscenza e l’implementazione della Direttiva del 2012 proprio in relazione alle vittime di corporate violence, e in particolare di reati concernenti l’ambiente e la sicurezza di prodotti alimentari, farmaceutici e medicali. L’obiettivo è quello di sensibilizzare tutte le categorie professionali coinvolte nel contatto con le vittime di questi reati – forze dell’ordine, magistrati, avvocati, medici, servizi sociali, ma anche associazioni di consumatori o di vittime e uffici legali delle imprese – a un approccio adeguato e rispettoso alla persona offesa, fornendo loro strumenti, come linee guida e una formazione mirata (anche grazie alla collaborazione, tra gli altri, con la Scuola Superiore della Magistratura), per una effettiva ed efficace applicazione della Direttiva in questi delicatissimi ambiti, e una conseguente effettiva tutela delle vittime.
La pubblicazione in lingua inglese, intitolata Rights of Victims, Challenges for Corporations, disponibile in open access sul sito del progetto (www.victimsandcorporations.eu), offre una panoramica delle principali questioni emerse nel corso della prima annualità del progetto europeo, insieme a una sintesi dei contenuti della Direttiva 2012/29/UE nel quadro delle politiche dell’Unione Europea in materia di vittime di reato (Parte I). Il recepimento della Direttiva nei tre Paesi del progetto (Belgio, Germania, Italia) viene affrontato nel capitolo II. La pubblicazione si chiude (Parte II) con alcuni saggi dedicati in modo specifico alle vittime di corporate violence e ai leading cases studiati, nonché al rapporto tra la Direttiva 2012/29/UE e le fonti europee in materia ambientale e di sicurezza dei prodotti alimentari e farmaceutici. Un’appendice di fonti normative internazionali ed europee, selezionate in base alla rilevanza per i temi del progetto, correda e completa la pubblicazione.
Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Stefania Giavazzi
Centro Studi “Federico Stella”
sulla Giustizia penale e la Politica criminale,
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
claudia.mazzucato@unicatt.it




L’accoglienza dei richiedenti asilo a Milano
Indagine, esperienza e punto di vista del Naga

Il Naga è un’associazione di volontariato laica e apartitica, costituitasi a Milano nel 1987, allo scopo di promuovere e tutelare i diritti di tutti i cittadini stranieri, rom e sinti senza discriminazione alcuna.
I volontari del Naga ogni anno offrono cura e assistenza legale e sociale, in attesa che le istituzioni competenti si facciano carico dei loro specifici doveri. Per questo motivo il Naga ha come fine la sua stessa estinzione, rifiutando ogni forma di sostituzione del volontariato rispetto alle responsabilità dello Stato. Il Naga arricchisce le proprie attività con la denuncia e la pressione sulle istituzioni. Nel 2001 l’associazione Naga ha deciso di aprire il centro Naga Har, dedicato a richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura, per dare supporto nella procedura di riconoscimento dello status di rifugiato e per proporre un processo non medicalizzato di cura delle ferite invisibili lasciate da tortura e persecuzione, attraverso attività formative e socializzanti.



Con la circolare dell’8 gennaio 2014 il Ministero dell’Interno, al fine di fronteggiare “l’afflusso di cittadini stranieri a seguito di ulteriori sbarchi sulle coste italiane” e considerata “l’avvenuta saturazione di tutti i centri governativi e di quelli garantiti da alcuni enti locali nell’ambito del sistema SPRAR” – sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati – incaricava tutte le Prefetture italiane di attivare Centri di Accoglienza Straordinari (CAS) per soddisfare la sovrabbondanza di richieste di accoglienza, coinvolgendo tutto il territorio nazionale e inaugurando una nuova stagione emergenziale. Tra l’autunno 2014 e i primi mesi del 2015 l’afflusso degli ospiti al Centro Naga Har è considerevolmente aumentato, modificata anche la tipologia delle richieste rivolte agli operatori. Si rivolgeva a noi un numero sempre crescente di persone arrivate in Italia da poco tempo e accolte in strutture di accoglienza di cui spesso i volontari del Naga Har ignoravano l’esistenza. Confusi e spaesati, senza capire una parola della nostra lingua, i più chiedevano di poter seguire corsi di italiano, e di avere delucidazioni sulla loro condizione da un punto di vista legale.

LE INTERVISTE AGLI UTENTI
Abbiamo così deciso di conoscere meglio la situazione, attraverso delle interviste agli stessi utenti presenti nel nostro Centro. Tra aprile e giugno 2015, abbiamo svolto 62 interviste personali semi-strutturate rivolte agli utenti del Centro Naga Har, ospiti delle strutture di accoglienza facenti capo alla prefettura di Milano. Contemporaneamente, con un’istanza di accesso agli atti, abbiamo chiesto alla Prefettura di Milano informazioni relative alle strutture coinvolte in questa accoglienza, i nomi degli enti gestori e il numero delle persone accolte.
Dalle interviste è emerso un quadro piuttosto confuso, da cui si evinceva l’esistenza di un’erogazione disomogenea dei servizi e di una casualità nell’assegnazione dei posti in accoglienza, oltre a una eterogeneità della tipologia delle strutture. Abbiamo quindi approfondito la nostra indagine recandoci in visita direttamente presso le strutture di accoglienza per intervistare gli operatori e avere, così, un quadro più chiaro e completo della situazione. Tra luglio 2015 e febbraio 2016 le informazioni sono state quindi arricchite e completate con interviste rivolte a ospiti, gestori e operatori delle strutture ospitanti. È stato possibile così fotografare lo stato del sistema di accoglienza gestito dalla Prefettura di Milano e verificare il grado di adesione ai bandi della Prefettura che definiscono le regole con cui tale accoglienza deve essere erogata.
Nell’incontro quotidiano con le singole persone emerge che ciascuna ha una storia, un viaggio, un percorso da raccontare, da condividere. Chiunque abbia provato a occuparsi di questi temi “dall’interno” si è scontrato con un insieme di situazioni, storie, percorsi così differenti da far affiorare il dubbio sulla legittimità stessa della definizione della categoria “migranti”. Questa varietà, che per tanti volontari e attivisti non solo del Naga, costituisce abitualmente una ricchezza, sembra ora, nel cercare di descrivere il sistema di accoglienza, assumere tutt’altra valenza. La prima cosa che colpisce nelle interviste che compongono il quadro del nostro report “(Ben)venuti! Indagine sul sistema di accoglienza dei richiedenti asilo a Milano e provincia” (2016) è un patchwork di situazioni e soluzioni.

ACCOGLIENZA, ACCOGLIENZE
“Accoglienza” è una parola buona, che evoca qualcosa di desiderabile: qualcosa che ciascuno si augurerebbe di ricevere. Il sistema di accoglienza per richiedere protezione o asilo in Europa, messo in campo nel nostro paese, non sembra invece contenere molto di desiderabile. I bandi che la Prefettura pubblica al fine di selezionare gli enti gestori indicano diversi servizi che questi sono tenuti a garantire. Lo scopo non è quello di fornire un mero posto-letto, ma consentire una qualità della vita accettabile attraverso, ad esempio, “orientamento al territorio”, o “massima cura nel proporre menù non in contrasto con i principi e le abitudini alimentari degli ospiti”, e ancora assistenza socio-psicologica, consulenza legale, assistenza infermieristica e sanitaria. Nei bandi sono anche contenute le unità minime di persone e/o orari relative alla loro erogazione. Per l’assistenza socio-psicologica sono previste ad esempio 12 ore settimanali per strutture fino a 150 ospiti. Ogni ospite ha quindi diritto a cinque minuti di assistenza socio-psicologica alla settimana. Riguardo all’orientamento legale, che per un richiedente asilo può significare la differenza tra dover tornare nel paese da cui è fuggito oppure no; si tratta di 8 ore alla settimana per strutture fino a 50 ospiti, quindi nove minuti e mezzo di orientamento legale alla settimana ciascuno. Spesso non in lingua madre. Il rapporto numerico tra operatori e ospiti è così previsto: circa un operatore ogni 25-28 ospiti (stranamente spiegabile in termini funzionali è il fatto che al crescere del numero degli ospiti gli operatori diminuiscono in proporzione: fino a 50 sono 1:25, poi 1:30). Questo significa che in una struttura che ospita 140 persone, un operatore su un turno di 8 ore può dedicare circa 17 minuti a ciascuno.
Certo, i numeri che abbiamo dato sono quelli “minimi”: nessuno impedisce a un ente gestore di lavorare con un numero maggiore di operatori. Ma gli appalti sono assegnati sulla base della migliore offerta economica, e questo fa sì che di fatto i numeri “minimi” restino un vincolo come numeri effettivi: chi si discosta o lo fa a spese proprie (e alcuni enti gestori lo fanno) o non vince l’appalto perché il servizio che propone costa troppo.
Un sistema costruito in questo modo, anche nel suo funzionamento fisiologico quindi senza disguidi o episodi di malafede, è lontano da quello che il concetto di “accoglienza” significa.
L’accoglienza prefettizia inoltre, immaginata per “far fronte all’emergenza”, presenta altri punti critici rispetto al sistema SPRAR, che preesisteva e continua a esistere.
Su tutti, la mancata definizione di una competenza necessaria per rispondere adeguatamente ai bisogni delle persone accolte sia dal punto di vista della tipologia di ente gestore – per il quale non viene richiesta precedente esperienza specifica – sia per quanto riguarda le competenze degli operatori, che non sono ben definite. Lo SPRAR finisce per essere marginale nel panorama dell’accoglienza, mentre l’accoglienza prefettizia, che dovrebbe far fronte alle emergenze, sembra in realtà essere diventato il modello di riferimento. Basti pensare che sul territorio di Milano le persone accolte nel sistema SPRAR sono in numero nettamente inferiore (circa ¼) a quelle accolte nel sistema gestito dalla Prefettura.
Troviamo inoltre alcuni enti gestori con una vocazione più assistenziale, altri con una storia e una mission che li porta a promuovere in maniera attiva l’autonomia degli ospiti. Alcuni enti gestori – la minoranza per fortuna, ma con alcuni casi eclatanti- operano solo in funzione del business, altri ancora non hanno in realtà strumenti per lavorare in questo campo, essendo nati come strutture alberghiere, e si arrabattano per cogliere questa occasione che per alcuni rappresenta la salvezza dal fallimento in periodo di crisi. Questa eterogeneità si riflette – sui servizi erogati.
L’erogazione di questi servizi, le modalità, i tempi, la gratuità non sono elementi secondari: possono condizionare, e di fatto condizionano, il percorso successivo della persona. Dall’accettazione della sua domanda di asilo allo stato di salute, dall’opportunità di apprendere la lingua a quella di accedere al Servizio Sanitario Nazionale. Questi, che dovrebbero essere diritti garantiti attraverso servizi forniti dagli enti gestori che ricevono fondi, vengono trasformati dal sistema di accoglienza in opportunità distribuite in maniera discontinua e casuale. In questo modo, la casualità con cui una persona viene assegnata a una determinata struttura ne determina spesso anche il destino, il futuro.
Il sistema di accoglienza prefettizia è un sistema che non prevede un futuro: un sistema – sono gli stessi operatori a rilevarlo ripetutamente – che rende difficoltoso il progetto. Ma questa non è una disfunzione, non si tratta della struttura inadeguata o dell’ente truffaldino: l’accoglienza per com’è pensata è un sistema volto a “tamponare” un’emergenza. In questo si rivela senz’altro un sistema miope, nel senso che non riesce a guardare oltre se stesso. Ci immaginiamo che le persone accolte ora nel sistema prefettizio rimangano accolte per sempre? Naturalmente no. Ma tanti elementi – emersi anche da questo report – fanno pensare che queste persone sono inserite in un percorso che le costringerà di fatto allo status di “emergenza per sempre”.
NAGA
Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria
e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti onlus, Milano
naga@naga.it




Il Centro di Informazione Teratologica
Teratology Information Service – TIS

Dal 2002 è attivo presso il Centro Antiveleni di Bergamo, in collaborazione con il Laboratorio per la Salute Materno Infantile dell’IRCCS – Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, un servizio di informazione sull’uso di farmaci in gravidanza e allattamento, avente come mission principale quella di dare informazioni indipendenti, basate sulla letteratura scientifica più accreditata.



Con Delibera della Direzione Generale dell’ospedale, adottata in data 10/09/2015, è stata
sancita formalmente la presenza in Azienda del servizio del Centro di Informazione Teratologica (Teratology lnformation Service – TIS) nell’ambito dell’USSD Tossicologia – Centro Antiveleni.
Il Servizio è operativo sulle 24 ore, è gratuito ed è raggiungibile da tutto l’ambito nazionale attraverso il numero verde 800.883300.
Accedono al servizio sia il personale sanitario che i privati cittadini.
Gli obiettivi:
1. informazione indipendente sull’uso di farmaci in gravidanza e allattamento
2. identificazione del profilo epidemiologico dell’esposizione a farmaci
3. attività clinica – Gruppo di lavoro interdisciplinare
4. rete collaborativa – Ricerca
5. farmacovigilanza
6. formazione.

Nell’anno 2016 al Servizio sono pervenute 39.094 richieste di consulenza sull’uso di farmaci in gravidanza o in allattamento (34.558 prime chiamate e 4536 re-call), con un incremento del 18% rispetto all’anno precedente. Dalla Lombardia provenivano 9765 richieste di cui 2844 (32%) per l’uso di farmaci in gravidanza e 6921 (28%) per i farmaci in allattamento. Dalla provincia di Bergamo, risultavano 713 richieste di informazioni in gravidanza e 1372 richieste in allattamento (rispettivamente nel 7% del totale delle informazioni date per pazienti gravide e nel 5% del totale delle richieste in allattamento).
Le richieste riguardavano la gravidanza nel 26% dei casi, l’allattamento nel 74%. ln particolare, 10.172 richieste per la gravidanza (9134 prime chiamate) e 28.922 per l’allattamento (25.424 prime chiamate).
Per quanto concerne la gravidanza questa era in atto nel 90% dei casi, possibile, ma non ancora accertata nel 2,5%, mentre nel restante 7,5% delle richieste si trattava di informazioni preventive prima di programmare la gravidanza.
L’età delle donne era inferiore ai 20 anni nell’1% dei casi, compresa tra 20 e 30 anni nel 27%, tra 31 e 40 anni nel 64%, oltre i 40 anni nel 8% dei casi.
Nella maggior parte dei casi sono state le pazienti stesse a contattare il Servizio (76%), seguite da medici o infermieri e ostetriche (16,5%) e da familiari (7,5%).
Le richieste di informazione riguardavano l’uso di farmaci (totali 15.885) nel 97% dei casi; al primo posto si collocano i farmaci attivi sul SNC (24%), in particolare ansiolitici (10,9%), antidepressivi (7,9%), antipsicotici (3%) e antiepilettici (prescritti anche come modulatori dell’umore, 1,9%).
L’anamnesi relativa al fumo è stata negativa nell’87% delle donne, il 4% ha smesso di fumare appena accertata la gravidanza, l’1,5% in occasione della programmazione della gravidanza, mentre il 7,5% ha continuato a fumare. Lo 0,8% delle donne consuma alcol durante la gravidanza.
L’acido folico, di fondamentale importanza per prevenire i difetti del tubo neurale, è stato assunto nei 2-3 mesi precedenti il concepimento nel 25% dei casi, dopo la diagnosi di gravidanza nel 51%, mentre non è stato assunto nel 24%.
Il rischio di teratogenesi stimato risultava non superiore all’atteso nel 21% dei casi, improbabile nel 68%, possibile nel 3% e infine, significativo nello 0,5%. Nel restante 7,5% dei casi non erano disponibili dati nella letteratura internazionale. È stato quindi contattato il medico curante per valutare/suggerire farmaci con la stessa indicazione terapeutica e maggiore documentazione in letteratura.
Per quanto concerne l’allattamento, in modo analogo alla gravidanza, le informazioni sono state richieste dalle donne nell’85%, dai medici e da altri operatori sanitari nel 9%, dai familiari nel 6% e altri nel 3% dei casi.
Le fasce dì età delle donne ricalcavano, come atteso, quelle della gravidanza; l’età del lattante al momento della richiesta di consulenza era < 6 mesi nel 57% dei casi, tra 7 e 12 mesi nel 22%, tra 13 e 24 mesi nel 17%, mentre nel 4% dei casi era superiore ai due anni.
L’anamnesi relativa al fumo è stata positiva nel 3,3% delle donne, mentre il consumo di alcol era dichiarato dal 1,3% delle pazienti.
Le richieste di informazione riguardavano l’uso di farmaci (totali 41.903) nel 98% dei casi, mentre il restante 2% riguardava informazioni su esecuzione di radiografie, uso di cosmetici, ecc. Tra i farmaci, al primo posto si collocano i farmaci antinfiammatori (20,6%), seguiti da antibiotici (13,8%), gastrointestinali, muscolo-scheletrici neurologici, ecc. I farmaci attivi sul SNC riguardavano il 7% del totale delle richieste, in particolare ansiolitici (3,5%), antidepressivi (2%), antiepilettici (0,7%) e antipsicotici (0,7%).
I farmaci sono risultati compatibili con l’allattamento nell’85% dei casi (con rischio non aumentato nel 34% e improbabile nel 51%), comportavano un rischio possibile per il lattante nel 3% e uno significativo nello 0,1% mentre nel 12% non erano disponibili dati in letteratura. In questi casi è stato contattato il medico curante per valutare/suggerire farmaci con la stessa indicazione terapeutica e documentata la sicurezza.
Giuseppe Bacis
Centro Antiveleni,
ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo
gbacis@asst-pg23.it




Comitati etici tra ricerca mirata e ricerca sprecata

Chi ha l’onore e l’onere di sedere in un Comitato Etico (CE) ha occasione di constatare di persona quanto realistica sia la stima di Chalmers e Glasziou secondo cui la maggior parte della ricerca clinica rappresenta uno spreco1. Le ipotesi di ricerca spesso perseguono obiettivi diversi rispetto ai bisogni di salute che magari fingono di affrontare. Né la metodologia che la ricerca clinica spesso adotta consente di fornire ai pazienti risposte utili e credibili (si pensi all’abuso del placebo, all’impiego di controlli inadeguati, all’adozione di endpoint surrogati non validati, di campioni sottodimensionati, ecc.). Eppure i CE approvano la maggior parte di questi studi, la comunità scientifica ne accoglie i risultati nelle maggiori riviste e le autorità regolatorie fanno affidamento su quei dati per approvare nuovi prodotti per il mercato della salute. Com’è possibile? Forse un motivo è la carenza di competenze di metodologia clinica nell’ambito dei CE, il primo argine di fronte alla ricerca clinica inutile o potenzialmente dannosa. Forse vi contribuisce anche una visione della realtà distorta dal venir meno della condizione di indipendenza che deve caratterizzare i CE. Un fattore di distorsione che limita l’indipendenza del Comitato è probabilmente la presenza di membri cosiddetti “interni”, coloro cioè che rappresentano l’istituzione presso cui la ricerca sarà realizzata. Pur inconsapevolmente, questa componente è portatrice di un evidente conflitto di interessi. Oltre a beneficiare i pazienti, infatti, la ricerca clinica promuove ambizioni personali, carriere professionali, la stessa immagine delle istituzioni nonché il loro budget nel caso di studi con fini commerciali. Può esser difficile per un membro del Comitato negare l’autorizzazione a uno studio che recherebbe tali vantaggi accessori ai colleghi e all’istituzione di riferimento, anche se non ne offre ai pazienti. La decisione è ancor più difficile quando la stessa sopravvivenza o lo status dell’istituzione dipendono dalla sua produttività scientifica, come nel caso degli IRCCS. Ciò che mina l’indipendenza di giudizio dei CE, in particolare quelli afferenti agli IRCCS, sono i criteri di valutazione adottati rispettivamente dalla comunità scientifica e dal Ministero della Salute. La ricerca clinica in genere deve mirare a rendere più duratura e possibilmente migliore la vita delle persone. La ricerca clinica degli IRCCS, in particolare, deve dar risposta a questioni rilevanti per il Servizio Sanitario Nazionale e per i suoi pazienti. Possono H-index, impact factor, ecc. misurare la qualità della ricerca e la sua finalizzazione allo scopo specifico che la ricerca clinica si pone? Un valido criterio di valutazione semmai sarebbe il computo di quante vite un dato progetto di ricerca ha salvato, di quante ne ha rese qualitativamente migliori e di quante promette di salvarne e/o migliorarne una volta che i suoi risultati saranno trasferiti nella pratica clinica.
La ricerca clinica – particolarmente quella condotta nelle istituzioni del Servizio Sanitario Nazionale – dovrebbe esser valutata per il suo impatto sui pazienti e la salute pubblica, affrancando in tal modo le istituzioni e i loro CE dal bisogno di rispondere ad altre incombenze. Questo aiuterebbe la comunità scientifica, le autorità di salute pubblica, le stesse istituzioni e i loro CE a distinguere meglio tra grano e loglio, tra ricerca mirata e ricerca sprecata.
Vittorio Bertele’, Chiara Gerardi, Rita Banzi
Laboratorio di Politiche Regolatorie del Farmaco
IRCCS – Istituto di Ricerche Farmacologiche
Mario Negri, Milano

1. Chalmers I1, Glasziou P. Avoidable waste in the production and reporting of research evidence. Lancet 2009; 374:86-9. doi: 10.1016/S0140-6736(09)60329-9.




C’era una volta... il farmaco
Nonno mi aiuti?

Il Progetto Regionale di Farmacovigilanza della Regione Lazio con la collaborazione di SIFO (Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie) ha effettuato un Progetto di informazione e formazione sull’uso sicuro dei farmaci rivolto ai bambini e ragazzi della Regione Lazio.
Sono stati coinvolti i Presidi e le/gli insegnanti di undici Istituti della scuola dell’obbligo per permettere di conoscere e di discutere l’importanza di acquisire conoscenze corrette in campo sanitario.
Il Progetto è servito ad aumentare nei bambini e nei ragazzi, coinvolgendo anche i genitori, la consapevolezza di quanto sia a volte pericoloso assumere medicinali in modo non appropriato, e in futuro rappresenterà per la Regione Lazio un primo step di conoscenze per promuovere ulteriori campagne informative rivolte alla popolazione pediatrica.
Gli obiettivi di questo studio sono stati due:
1. costruire consapevolezza sull’uso dei farmaci nei bambini e ragazzi attraverso una informazione scientificamente corretta, adatta all’età degli interlocutori, stimolando i bambini a compiere un percorso di condivisione delle conoscenze acquisite anche all’interno delle loro famiglie;
2. far emergere eventuali usi inappropriati ed eventuali reazioni avverse mai segnalate.
La misurazione del raggiungimento è avvenuta attraverso l’analisi delle risposte ai quiz somministrati prima e dopo l’intervento formativo.
Per far questo è stato ideato il “Quaderno” per gli studenti della scuola di 5a elementare e 1a media inferiore, per fornire maggiori informazioni e conoscenze rispetto al corretto uso dei farmaci.
Il Quaderno è così strutturato.
Uso corretto dei farmaci, conservazione e smaltimento (tutto quello che c’è da sapere sull’uso corretto del medicinale; i farmaci devono essere conservati in un posto sicuro; i farmaci scaduti, rovinati o non utilizzati devono essere sempre gettati negli appositi contenitori per la raccolta differenziata dei farmaci, ecc.).
Farmaci: le interazioni (per usare al meglio i farmaci, bisogna quindi sempre leggere il foglietto illustrativo prestando attenzione al modo (o modalità) di somministrazione e agli altri farmaci o cibi e bevande con cui potrebbero interagire anche annullando l’effetto curativo).
I vaccini (la vaccinazione è un aiuto per il nostro sistema immunitario che combatte tutti i microbi che causano malattie, il rischio di ammalarsi è molto più grande dei rischi che si corrono con il vaccino).
Gli antibiotici (gli antibiotici sono medicinali specifici usati dai dottori per eliminare i batteri dannosi quando le nostre difese naturali non sono sufficienti).
Cosa portare in vacanza (un breve memorandum per i genitori).





Progetto Regionale Area Risorse Farmaceutiche
Dirigente: dott.ssa Lorella Lombardozzi;
Responsabile Regionale
di Farmacovigilanza
:
dott.ssa Valeria Desiderio.
Responsabile Scientifico
del Progetto
: dott.ssa Rita Salotti, Responsabile Regionale di Farmacovigilanza.
Gruppo di Lavoro: dott.ssa Alessandra Giudice, Collaboratrice Regionale di Farmacovigilanza per la Regione Lazio dott.ssa Roberta Leva, Collaboratrice Regionale di Farmacovigilanza per la Regione Lazio, dott.ssa Elisabetta Umana, Collaboratrice Regionale di Farmacovigilanza per la Regione Lazio.
Progetto Grafico e Impaginazione: Giorgio Rufini, Gierre Design di Giorgio Rufini.