Quello che i numeri non dicono
Marjeta Balili
Infermiera Coordinatrice dei Servizi Assistenziali
Fondazione Casa di Dio, Onlus –Brescia
marjeta.balili@casadidio.eu

Lavoro presso la Fondazione Casa di Dio di Brescia dal 2001, prima come operatore addetto all’assistenza e dal 2011, dopo avere conseguito la laurea in infermieristica nel mio paese, l’Albania, come infermiera. Da due anni sono coordinatrice dei Servizi Assistenziali presso La Residenza, una delle quattro Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) della Fondazione.
L’irruzione della pandemia ha stravolto la nostra routine e le nostre vite: la mia e quella di tutti i colleghi e gli operatori che si sono trovati a combattere con poche informazioni (come tutti), pochi mezzi (soprattutto all’inizio), buona volontà e tanta paura. Paura per i nostri anziani ospiti, per noi e per le nostre famiglie. Sono madre di due figli e da poco nonna di Christian, nato poco prima dell’emergenza Covid-19 e che vedo crescere nei video che mia figlia mi invia.
I miei ricordi più vividi sono legati agli ospiti che in questi due mesi ci hanno lasciato. I mass media riportano i numeri, ma per me e per tutti noi non sono numeri: nelle residenze le persone accolte rimangono mediamente un paio di anni, alcuni molto di più, e in questo tempo conosciamo loro, le loro storie, le loro famiglie. Conosco i nomi dei loro figli, dei loro nipoti. Le strutture sono aperte ai familiari che possono trascorrere anche molto tempo al giorno con i loro cari. I nostri saloni, il chiostro che circonda il giardino, il bar gestito da una cooperativa sociale ora sono vuoti e silenziosi, ma fino a fine febbraio erano luogo di incontro degli anziani e dei loro familiari. Ed è attraverso il ricordo di alcuni di loro che voglio narrare cosa è stato per la nostra Fondazione il passaggio di SARS-Cov-2.

NON DI SOLO VIRUS…
5 marzo 2020: da qualche giorno in struttura poteva accedere un solo familiare per ospite, sempre lo stesso, e per i soli ospiti più compromessi che necessitavano di aiuto nell’assunzione del cibo.
Mi occupavo ogni giorno della rilevazione della temperatura corporea per autorizzare o meno l’accesso. La Direzione mi informa che dal giorno successivo, per disposizione della nostra Regione, non era più concesso l’accesso di nessun famigliare e che la stessa Direzione aveva già provveduto ad informarli tutti.
Alle 17,30 come di consueto scendo in portineria per accogliere i famigliari, una decina, che per l’ultima volta entravano in struttura per aiutare i loro anziani per la cena, e ne trovo molti altri che chiedevano di poter salutare i loro cari prima della chiusura della RSA alle visite. Tra questi ci sono i figli della Signora Luisa, 78 anni, che aveva avuto un anno fa importanti problemi di salute che avevano messo a rischio la sua stessa vita. I figli facevano visita alla mamma tutti i giorni e sia lei che loro soffrivano per questo distacco. Mi chiedono di poterla vedere, solo un attimo: ricordo i loro occhi imploranti. Con grande dispiacere ho dovuto negare loro il permesso: ci fossero stati solo loro, li avrei fatti entrare, ma c’erano altre persone e non era davvero possibile. Il 9 marzo ero a casa in isolamento fiduciario, perché nei giorni precedenti avevo avuto sintomi compatibili con Covid-19, e i colleghi mi informano che Luisa è deceduta. Ancora oggi rivedo lo sguardo dei due figli che mi chiedevano di poterla salutare. Sarebbe stata l’ultima volta. Mi sento in colpa, anche se non ero responsabile: applicavo una restrizione imposta dalla nostra Direzione in osservanza di una delibera regionale. Luisa era consapevole della situazione e soffriva per l’assenza dei suoi figli. È morta nella notte per un arresto cardiaco, non aveva sintomi di Covid-19.
Anche per Mario è accaduto le stesso. Mario era un signore disabile dalla nascita. La sorella, che a lui ha dedicato la vita, veniva in struttura tutti i giorni. Erano molto legati. Mario, già in gravi condizioni, era nutrito tramite un catetere venoso Midline. Quando l’ho informata dell’impossibilità di accedere alla RSA, mi ha pregato di poter ottenere un permesso dal nostro direttore sanitario: “Se io non vengo da lui, mio fratello morirà di crepacuore”. Dopo 3 giorni dalla chiusura, il signor Mario, senza alcun sintomo riferibile a Covid-19, è morto.
Nelle prime settimane in cui nella nostra provincia e regione tutti ci si organizzava per far fronte all’irrompere della pandemia, noi abbiamo perso gli ospiti che “si sono lasciati andare”, perché privati dei loro affetti più cari, che nessuno di noi operatori poteva, ne potrà mai, sostituire.

IL SENSO DELLE PICCOLE COSE
Nei giorni successivi abbiamo compreso di quanto fosse capace “il nemico invisibile”. Nella nostra struttura, la prima delle quattro, sono iniziati i decessi delle persone con sintomi riferibili a Covid-19. Si sono ammalati anche gli operatori e, per far fronte alle esigenze degli ospiti, gli infermieri e gli operatori rimasti in servizio hanno fatto turni di 12 ore. Nessuno si è negato e tutti ci siamo reciprocamente aiutati.
La signora Luigina aveva 97 anni, è stata una delle prime ad ammalarsi e, in breve tempo, ci ha lasciato. Era una signora lucida, amatissima dai suoi tre figli. Prima che Covid-19 se la portasse via siamo riusciti a farle incontrare per un’ultima volta due dei tre figli. Si è spenta poco dopo. Una operatrice nel ricomporre la salma (non c’erano ancora le disposizioni emanate successivamente che imporrano di non vestire i deceduti) si è ricordata che a Luigina, che era sempre molto elegante, piaceva in particolare una camicia finemente ricamata. La indossava la domenica e nei giorni di festa. I tre figli ci hanno scritto un biglietto per ringraziarci di queste attenzioni: “davvero l’avevate conosciuta ed accontentata! Le vostre attenzioni leniscono il nostro dolore: con voi la mamma era in buone mani. Grazie”.

LA SIGNORA DEI FIORI
Agnese, di cui conservo i vasi di fiori che curo nel suo ricordo, camminava con un deambulatore e si fermava volentieri a scambiare due parole con me. I due figli le erano molto affezionati e insieme ai nostri medici hanno deciso di ricoverarla in ospedale. Dopo le prime settimane in cui ci era stato raccomandato, in una delibera della nostra Regione, di trattare gli ospiti con Covid-19 in struttura a causa del grande afflusso di pazienti negli ospedali, adesso era possibile, per le persone che ritenevamo potessero giovarsi di un trattamento intensivo, l’invio in ospedale. Saturava 58% quando è salita in ambulanza. Nei primi giorni le notizie che arrivavano dall’ospedale erano confortanti. Tuttavia, Agnese, confinata in un letto di terapia semi intensiva, assistita da persone sconosciute, si rifiutava di mangiare. Negli ultimi giorni anche in struttura rifiutava il cibo, ma gli operatori insistevano e con pazienza riuscivano ad alimentarla con i cibi a lei più graditi. I figli, preoccupati, mi chiesero se fossimo disposti a riaccoglierla in struttura: la situazione respiratoria era migliorata e i medici dell’ospedale erano d’accordo. Sentito il nostro medico, noi eravamo pronti. Ma Agnese non rientrò in struttura: ricevetti io la telefonata da uno dei figli che mi comunicò che Agnese non ce l’aveva fatta. Avevamo sperato fino all’ultimo. Piangeva il figlio e piansi anche io con lui, per Agnese e per tutti i nostri ospiti che Covid-19 si era portati via.

PER LUI ERO “LA CAPA”
Giovanni, 89 anni, era affetto da demenza. Deambulava autonomamente con il girello e quando mi incontrava mi chiedeva se potesse restare ancora un po’ qui in struttura, anche pagando, se necessario. Non si ricordava il mio nome, per lui ero la capa. Io stavo al gioco e gli dicevo che poteva restare per tutto il tempo che voleva, era tutto pagato. Giovanni, rassicurato, riprendeva il suo vagare.
Giovanni una mattina di marzo è caduto ed è stato inviato in pronto soccorso per accertamenti. Come da prassi, in pronto soccorso, è stato fatto anche il tampone. Un paio di giorni di ospedale e Giovanni è rientrato in RSA: nessuna frattura e tampone negativo.
Era capitato altre volte che cadesse e, dopo la caduta, compariva febbre di solito associata ad un’infezione. E fu così: comparvero tosse, catarro, sospetta polmonite. Il dubbio, che nonostante il tampone fosse negativo, si trattasse di Covid-19 ci ha costretti ad isolarlo. Era agitato, non poteva scendere nel chiostro per deambulare con il suo girello. Si è spento pochi giorni dopo. Era completamente solo, non si era mai sposato e non aveva figli. Una pronipote si informava costantemente delle sue condizioni, ma non è venuta a salutarlo. La paura del virus è stata più forte.
I nomi degli ospiti sono di fantasia. I fatti narrati sono realmente accaduti. A loro e a tutti gli altri che ci hanno lasciato “per” o “con” la Covid-19 dedico questo scritto.
Le nostre strutture si stanno preparando a ritornare ad una possibile normalità. C’è molto da fare a partire dal riprendere tutte le attività che caratterizzano le Residenze e le rendono luoghi di vita per le persone con gravi disabilità funzionali e cognitive. Appena possibile si riapriranno le strutture ai familiari: sebbene a distanza e con la mascherina sarà possibile sostituire le videochiamate, unico tramite oggi tra gli anziani e le loro famiglie, con gli sguardi, le parole, i sorrisi e le lacrime di gioia. Le loro e le nostre.