Spesa farmaceutica e manovra finanziaria: riflessioni

Gianluigi Casadei, Livio Garattini
Cesav, IRFMN Bergamo
livio.garattini@marionegri.it


Il 2009 si è chiuso con un disavanzo di 1,3 miliardi di euro, pari all’1,26% del Fondo Sanitario Nazionale (FSN), in lieve peggioramento rispetto al 2008. Esplosione del deficit in Lazio, Sicilia e Calabria che, insieme a Puglia, Campania e Sardegna, contribuiscono al 74% del disavanzo totale. Ci sono però anche buone notizie: Valle d’Aosta, Lombardia, Molise e le Province di Trento e Bolzano hanno speso meno dell’atteso e altre (Piemonte, Emilia Romagna e Toscana) sono scese sotto la soglia dell’1% di deficit.
Tutti i commentatori sono stati concordi nell’attribuire alla spesa ospedaliera la responsabilità del deficit, mentre la spesa territoriale (farmaci di classe A distribuiti attraverso le farmacie o direttamente dalle strutture pubbliche) sarebbe sotto controllo. Il dato aggregato per area geografica sembra comunque suggerire come alla base vi sia un problema gestionale: le Regioni del nord hanno rispettato il tetto di spesa, mentre quelle centrali e meridionali hanno superato la soglia del 2% di disavanzo (figura 1).



L’immagine di un’Italia divisa fra chi è in grado di gestire la spesa e chi no è confermata dall’analisi dell’andamento della spesa territoriale. Infatti le Regioni settentrionali, e in parte quelle centrali (ad esclusione di Abruzzo e Lazio), sono state in grado di tenere sotto controllo la spesa di classe A, confermando il risultato del 2008 (figura 2). Al contrario, tutte le Regioni meridionali, con l’eccezione della Basilicata, non sembrano avere ancora acquisito questa capacità gestionale e hanno superato il tetto di spesa in media dello 0,9% (con la Sicilia all’1,6% e la Puglia all’1,7%), sebbene in queste Regioni la compartecipazione alla spesa (ticket) sia stata in linea con la media nazionale. Indubbiamente, una gestione efficiente della spesa territoriale ha rappresentato l’elemento vincente per ammortizzare il deficit farmaceutico ospedaliero, da tutti indicato come l’unica causa del disavanzo 2008-2009, e addirittura rispettare il tetto di spesa globale.



In Lombardia la spesa farmaceutica ospedaliera ha sforato dello 0,94% nel 2009, ma la Regione ha chiuso globalmente con un risparmio dello 0,9% dovuto a una significativa riduzione (–1,86%) della spesa territoriale. All’esempio lombardo si aggiungono la Valle d’Aosta e la Provincia di Bolzano (Trento ha risparmiato anche sull’ospedaliera), mentre Friuli Venezia Giulia, Veneto, Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna hanno contenuto il deficit globale regionale al di sotto dello 0,7%.
Perché una spesa ospedaliera ha superato anche quest’anno il tetto? Una prima risposta è già stata data, ma è rimasta inascoltata: il budget di spesa, fissato (su basi storiche?) dalla finanziaria 2008 al 2,4% del FSN, è insufficiente a coprire i fabbisogni. Questa tesi è avvalorata da due considerazioni. I dati regionali indicano come nel 2008 e nel 2009 quasi tutte le Regioni siano andate in deficit, e fra loro ci sono anche le più virtuose. In secondo luogo, mentre la spesa territoriale ha beneficiato della perdita della copertura brevettuale di molti principi attivi importanti (a cui nel 2009 si è aggiunto il taglio del 12% dei prezzi dei generici), al contrario la spesa ospedaliera ha dovuto assorbire molti farmaci ad alto costo come i biologici e i biotecnologici. Nel 2009 la spesa per gli anticorpi monoclonali è stata di 513 milioni di euro, pari al 12% della spesa ospedaliera totale, con un incremento dell’8,2% rispetto all’anno precedente. Seguono gli inibitori TNF- α (407 milioni di euro; +6,5%), i farmaci antianemici, gli interferoni, gli inibitori delle protein-chinasi e gli antivirali.
Tuttavia, c’è un terzo fattore da considerare: l’efficienza del monitoraggio della spesa. La Legge n. 222/2007 ha limitato la responsabilità dell’AIFA al controllo della spesa farmaceutica territoriale e ha attribuito la piena responsabilità della spesa ospedaliera alle Regioni che, in caso di sforamento, devono aumentare l’addizionale IRPEF e il ticket. Peraltro, i prezzi di molti farmaci ospedalieri tendono ad aumentare. In particolare, per i farmaci oncologici ad alto prezzo dal 2006 l’AIFA stipula con i produttori dei contratti di esito, noti come risk sharing o payment-by-results, in cui in pratica i farmaci sono inizialmente fatturati a prezzo pieno al SSN che ha però il diritto (dovere) di richiedere una nota di accredito per i pazienti che non hanno ottenuto il risultato terapeutico atteso sulla base delle schede di follow-up inserite nel registro dei farmaci oncologici (RFOM). Il meccanismo è elegante, ma il “rovescio della medaglia” è l’onere del controllo che è attribuito all’acquirente poiché, in mancanza di esito, ogni trattamento è un successo (per il produttore).
Come funziona il RFOM e quante sono le schede compilate e completate? Il primo e ultimo rapporto pubblicato in merito dall’AIFA non è molto aggiornato perché si ferma a settembre 2007. In occasione del recente convegno di Economia del Farmaco (Ranica, 25 e 26 Maggio 2010) sono state rese note alcuni informazioni ufficiose più aggiornate: in totale i pazienti registrati dal 2006 ad oggi sarebbero circa 95.000, in gran parte eleggibili per il trattamento. Una cifra che appare sottostimata se si considera, a mero titolo di raffronto, che la stima di incidenza nel periodo 2005-2010 è di 250.000 nuovi casi di tumore per anno, con una prevalenza stimata di 1,7 milioni di pazienti nel 2005.
Rimane ignoto il numero di casi completati e sembra proprio che anche le stesse Regioni siano all’oscuro, in quanto gli esiti sarebbero noti solo ai singoli acquirenti; ciò non permette di tenere un “bilancio” regionale dei successi e degli insuccessi. In mancanza di informazioni, rimane aperta la domanda se le Regioni di fatto recuperino o meno risorse economiche dai casi di fallimento terapeutico, come contrattualmente stabilito. È chiaro che ogni mancata applicazione si traduce in un aggravio di spesa non previsto per farmaci ad alto costo.
L’analisi dei disavanzi 2008 e 2009 richiama la necessità di interventi strutturali, in modo da evitare di perseverare in questa situazione di disavanzo continuo, anche alla luce della crisi finanziaria che sta attanagliando l’Europa. Primo fra tutti l’adeguamento gestionale delle Regioni “in sofferenza” anche attraverso un trasferimento di know-how, nel rispetto delle singole autonomie, da quelle Regioni che hanno dimostrato di saper gestire la spesa territoriale. Secondo elemento di riflessione: la possibile riunificazione dei tetti di spesa, come proposto dai tecnici regionali, che restituirebbe la piena responsabilità all’AIFA, l’agenzia che negozia i prezzi e le condizioni di rimborso. La terza ipotesi di riforma riguarda la distribuzione: un anno fa, su questa rivista (R&P 2009; 25: 91-9) abbiamo proposto di prendere in considerazione una riforma strutturale dei costi di distribuzione finale che sostituisca per le farmacie l’attuale remunerazione percentuale del prezzo del farmaco con una remunerazione fissa per confezione dispensata, in modo da modulare i costi distributivi in funzione dell’andamento della spesa farmaceutica. Infine, partendo dal caso del vaccino anti-HPV, il cui prezzo si è più che dimezzato grazie alle gare regionali, abbiamo proposto che le Regioni, superando le comprensibili ritrosie di ordine legale-amministrativo, prendano in considerazione la possibilità di sviluppare lo strumento delle gare.
Come sta reagendo lo Stato con la manovra finanziaria urgente entrata in vigore lo scorso 1 giugno?
Al di là di richiami generici contenuti in alcuni passi del Decreto Legge n. 78, quali “l’emanazione di linee-guida volte a migliorare l’efficienza delle aziende sanitarie nell’attività di gestione dei medicinali” (art. 11, comma 8) e “l’incremento delle misure di controllo per la qualità dei principi attivi nella produzione dei farmaci” (art. 11, comma 11), messaggi che danno più che altro una sensazione di “impotenza strutturale” a chi opera nel settore, i provvedimenti rilevanti appaiono essere i seguenti:
il taglio del 3,65% del margine alla distribuzione sui farmaci rimborsati in farmacia;
il “travaso” di 600 milioni di euro di fatturato dalla spesa ospedaliera a quella territoriale, grazie allo spostamento di un gruppo di prodotti (individuati entro un mese dall’AIFA) dalla fascia H alla fascia A;
la conduzione di gare nazionali di acquisto da parte dell’AIFA per i farmaci a brevetto scaduto a partire dal 2001, con aggiudicazione limitata ai quattro prodotti a prezzo più basso ed esclusione a priori degli “originatori” e delle copie concesse su licenza da questi ultimi;
la “reiterazione” dello sconto del 12,5% sui prezzi dei farmaci equivalenti per il secondo semestre dell’anno, analogamente a quanto accadde per il decreto emanato lo scorso anno per il terremoto dell’Aquila, con esclusione dei generici che hanno mantenuto il prezzo ridotto.
Ci sembra concettualmente logico commentare separatamente i primi due provvedimenti (riferiti alla distribuzione) dai restanti (riferiti ai farmaci equivalenti).



Il primo provvedimento (ammesso che non venga rivisto e minimizzato durante la discussione parlamentare) è quello oramai classico del “taglio secco” del margine, grossolanamente stimabile in 400 milioni di euro, “mitigato” da un potenziale recupero di 600 milioni di fatturato da parte delle farmacie per limitare le prevedibili rimostranze della categoria. Lo strumento è sempre quello classico della normativa “minuziosa e farraginosa”, mai quello di riforme strutturali ad ampio respiro mirate a rendere più concorrenziale il settore e, quindi, a investire in modo più efficiente le risorse pubbliche del SSN. Nella fattispecie, come detto, la logica economica imporrebbe di passare definitivamente dallo storico margine di legge proporzionale al prezzo del farmaco a una “remunerazione all’atto”, cioè una quota fissa per ricetta, per ricompensare il servizio di pubblica utilità reso al SSN dalle farmacie all’atto della dispensazione di un farmaco su ricetta (come accade da sempre nel Regno Unito). Tale provvedimento è dettato dall’evidenza che il margine alla distribuzione proporzionale al prezzo trova scarsa giustificazione a livello economico, a prescindere dall’entità della percentuale riconosciuta. Infatti, le farmacie sono fra i negozi quotidianamente più distribuiti al mondo da parte dei grossisti, vista la “garanzia d’acquisto” collegata alle ricette mediche, ragion per cui i costi di scorta (gli unici che giustificherebbero un margine proporzionale al prezzo di acquisto) sono praticamente inesistenti. L’introduzione di una remunerazione fissa per confezione dispensata costituirebbe uno strumento negoziale molto snello fra SSN e farmacie, facilmente e periodicamente negoziabile in funzione dell’andamento della spesa farmaceutica; a parole sono tutti d’accordo, anche l’Ordine Nazionale dei Farmacisti, ma all’atto pratico non se n’è mai fatto nulla e il tempo per una riforma incisiva e strutturale del settore distributivo sembra non arrivare mai.
Più interessante appare commentare i provvedimenti relativi ai farmaci equivalenti, con particolare riferimento al terzo, visto che il quarto non è altro che una “reiterazione” di un provvedimento dello scorso anno, su cui ci si può tutt’al più interrogare in termini di efficacia. Infatti, visto che l’obiettivo prioritario è quello di “far cassa”, trattandosi di una manovra di brevissimo respiro (sei mesi), non sarebbe stato più proficuo proporre una “sforbiciata” dei prezzi di tutti i farmaci in commercio, analogamente a quanto di fatto accade nella maggioranza dei Paesi membri “anziani” della UE (ad esempio, il 5% nel Regno Unito)?
Meritevole di un commento più ampio il primo tentativo di utilizzare gare pubbliche di acquisto di farmaci a livello di assistenza territoriale per rendere più concorrenziali i prezzi dei farmaci equivalenti. Peraltro, la decisione di condurre una gara nazionale di acquisto (ancorché “allargata” a quattro aziende aggiudicatarie), affidandone il compito all’AIFA (ad oggi totalmente inesperta in materia), ci lascia assai perplessi nella sua ipotetica attuazione, almeno per due motivi importanti. Innanzitutto, la conduzione di gare nazionali rischia di vanificare la concorrenza fra genericisti nel medio periodo, escludendo di fatto dal mercato le aziende “non aggiudicatarie”; alternativamente, la gara risulterebbe priva di senso (e quindi di risultati sostanziali) qualora queste ultime potessero adeguare i prezzi a quello minimo di aggiudicazione, annullando di fatto il vantaggio competitivo delle aziende “aggiudicatarie”. In secondo luogo, ci sembra del tutto illegittima, e quindi facilmente impugnabile, la decisione di escludere dalle gare le specialità medicinali (“originatore” e copie), ulteriore tentativo di creare una “riserva indiana” per i farmaci equivalenti: apprezzabile in teoria, ma inattuabile in pratica. Ancorché assai opinabile, l’esclusione autorizzerebbe comunque le aziende che commercializzano specialità ad adeguare successivamente i propri prezzi a quelli di aggiudicazione, vanificando, di fatto (per l’ennesima volta), lo sviluppo dei generici nel nostro Paese.
Decisamente più opportuna ci sarebbe parsa la decisione di condurre gare a livello regionale, in quanto ciò permetterebbe di:
1. garantire complessivamente il “pluralismo aziendale” dei genericisti sul territorio nazionale, fondamentale per mantenere la concorrenza nel lungo periodo;
2. responsabilizzare finanziariamente le Regioni, coerentemente con il tanto “strombazzato” federalismo fiscale (logica diametralmente opposta a quella delle gare centralizzate), dando loro l’opportunità di spuntare singolarmente prezzi interessanti attraverso gare “monoaggiudicatarie”, come da noi evidenziato nel caso delle gare sui vaccini HPV.
In conclusione, come tutti i “vecchi saggi” amano ripetere, le crisi sono il momento ideale per le innovazioni strategiche; in questi giorni molte aziende chiedono ai propri manager di pianificare i cambiamenti strutturali. Allora perché non considerare questa opportunità anche nel settore della Sanità pubblica?